The time is out of joint. O cursèd spite
That ever I was born to set it right!
Nay come, let's go together
Il tempo è scardinato. Maledetto rancore
Come fossi nato per rimetterlo in sesto!
Ora venite, andiamocene insieme.
(Shakespeare, Amleto, 1.5.188-90)
Ancora una volta il tempo è fuori cardine, di nuovo tocca a ognuno di noi rimetterlo in sesto. Questo è quanto ci chiede la
Carta delle responsabilità 2017 proposta da
Gariwo.
Gariwo è la Foresta dei Giusti. Si trova nel luogo noto ai milanesi come Monte Stella o, ai più anziani, Montagnetta di Milano. Là sono stati piantati alberi in memoria dei giusti.
L'ispirazione viene in primo luogo dal Giardino dei Giusti di Gerusalemme, fondato da Moshe Bejski nel 1962. In tutto il mondo, l'esperienza di Gerusalemme ha fornito ispirazione a iniziative che hanno lo stesso animo.
La Foresta dei Giusti di Milano ricorda ogni tipo di strage o massacro, a partire dalla Shoah e dal Genocidio armeno, perpetrato dall'Impero Ottomano prima del 1915/16 e oltre, che causò un milione e mezzo di morti e che, ancora oggi, molti esponenti delle autorità turche negano.
Gabriele Nissim e Pietro Kuciukian, console onorario della Repubblica Armena in Italia, sono i promotori principali di questa importante iniziativa, ma non sono gli unici a supportarla. Tra i promotori ci sono personalità del mondo politico e culturale italiano e mondiale.
Invero, in questa iniziativa, c'è qualcosa di più. Certo serve per non dimenticare, per ricordare il passato. Tuttavia, la Carta delle responsabilità 2017, che è parte integrante dell'iniziativa di Gariwo, non è solo un luogo per ricordare il passato, ci chiede anche di aiutare i nostri figli a ricordare un futuro differente, ci chiede di immaginare un futuro in cui il tempo venga rimesso in sesto da noi, prima che sia troppo tardi.
Ho recensito, poco tempo fa, un libro sullo scenario futuro immaginato da Débora Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro. I due si chiedono: “Esiste un mondo futuro?” Sembra infatti che, se raccogliamo un serie di informazioni sullo stato del pianeta, le cose si stiano mettendo molto male. Forse non per noi, ma per i nostri figli e nipoti.
Ebbene Gariwo ci chiede di fare ancora un sforzo, come ebbe a fare Jacques Derrida in occasione del primo congresso delle città-rifugio tenutosi presso il Consiglio d'Europa a Strasburgo su iniziativa del Parlamento internazionale degli scrittori il 21 e il 22 marzo 1996.
Da allora sono passati ventuno anni, anni di regressione culturale e accademica, di scientismo ideologico, di oblio delle relazioni positive, della cortesia e della tenerezza. Di dominio del pensiero economico, bancario, quantitativo. Di assalti terroristi. Di disprezzo dei minuti particolari e delle singolarità.
La Carta delle responsabilità 2017 ci chiede di essere giusti nel futuro. Essere giusti, non eroi. Ma qual è la differenza tra un giusto e un eroe? Quale quella tra un giusto e un martire? All'eroe, al martire viene chiesta coerenza, a queste figure spetta il compito impossibile di essere perfette, di sacrificare la loro intera esistenza per una causa, di rinunciare a essere soggetti. All'eroe e al martire vengono tolte le responsabilità, eroi e martiri sono vittime di un'infanzia oppressa, nei luoghi religiosi del fanatismo, nelle solitudini dell'abbandono, nelle relazioni violente, abusive, oppure nella desolazione delle periferie davanti allo sguardo perduto di genitori che non sanno più come sopravvivere, nella desolazione esistenziale, nelle discariche, nei campi profughi. Ecco che, proprio in quei luoghi, cresce il sentimento di crudeltà.
Questo non significa affatto che il martire debba ricevere una giustificazione per i massacri che compie. Qualcuno ha osservato: ma se patologizziamo il martire, non gli diamo una patente di follia che giustifica il gesto terrorista? Si tratta di un’obiezione seria, da prendere in considerazione. Nel mio lavoro, il lavoro di uno psicologo clinico, bisogna imparare a distinguere tra la follia vera e la distruttività umana. Il fatto che il martire sia il segno di una patologia sociale, non significa che sia folle, nel senso della follia di uno schizofrenico, per esempio. Tutto al contrario, spesso il martire, il sociopatico, che muore per una causa religiosa o ideale radicale, è normotico. Sociopatia e narcisismo sono manifestazioni di ultranormalità. Non sono la solitudine e l’isolamento, bensì la reazione alla solitudine che rendono ognuno diverso, singolare. Chi si ritira dal mondo, il folle, vive nella solitudine dei fantasmi, che si presentano in forme diverse, soffre, ma il suo ritiro dal mondo lo rende inerme, necessita di comprensione. Chi, come Amleto, affronta il dilemma e sposta lo spirito di vendetta trasformandolo nel dubbio, si dà la possibilità di essere giusto: questo accade al nevrotico, a me, a chi sta leggendo queste pagine ed è arrivato fin qui senza smettere, dissentendo o convergendo su queste considerazioni. Infine, c’è chi decide di de-soggettivarsi, di nascondere se stesso dietro un velo, una maschera, una clandestinità; ebbene, costui è sociopatico, narcisista. Il suo problema è, in primo luogo, un problema morale. Costui è pienamente responsabile dei suoi gesti distruttivi, li commette in piena consapevolezza. Ma un sistema sociale in cui queste pratiche distruttive prosperano è un sistema sociale gravemente malato, un sistema psicotico.
Non sempre morire per una causa corrisponde al fanatismo. Chi ha lottato e lotta contro il fanatismo, chi muore e rischia la vita per la libertà, il rispetto e la dignità umana non è un fanatico.
Tuttavia il giusto è un soggetto dubbioso, come Amleto, gli tocca rimettere in sesto il tempo scardinato perché, anziché credere al primo che passa, ascolta le parole del fantasma del padre. Le porta avanti con fatica e, soprattutto, ne mitiga il messaggio attraverso il dubbio. Lungi dall'essere tutto d'un pezzo, è fessurato, abitato dal nulla. Il giusto non ha bisogno di coerenza, non si espone, come l'eroe e il martire, al mondo. Rifugge il narcisismo dominante in questi anni. Solo, il giusto prende posizione, insieme, cambia il mondo. Questo è tutto quello che ci chiede la Carta delle responsabilità 2017, di prendere posizione per il futuro: il novo imperativo morale, il futuro, non il “progresso”. Ma, come insegna Amleto, tocca farlo insieme, riconoscendoci sempre dentro quel principio che Ernst Bloch definì: “principio di speranza”.