Ormai non c’è convegno che non inneggi alle sinergie, alle intese tra soggetti, ma stentano ad affermarsi esperienze in cui davvero si attivino connessioni stabili, tra operatori complementari diffusi sul territorio, reti di pescatori che valorizzino le ostriche e non solo le perle. (Scopri di più su:
IlGiornaleDelleFondazioni.com)
Giocassimo a Bridge, saremmo nella fase delle dichiarazioni. Nello scorso mese in almeno tre appuntamenti importanti di associazioni o istituzioni si sono sottoscritte conclusioni qualificanti, dove brilla l’impegno a collaborare tra i soci e a promuovere sinergie derivanti dalla cooperazione con gli altri soggetti del territorio.
Per il convegno più rilevante, promosso da ICOMOS (il Consiglio Internazionale dei Monumenti e dei Siti, organo consultivo dell’UNESCO) a Firenze, a margine del G7 della Cultura, il neo presidente Laureano ha messo in evidenza il potenziale sottoutilizzato delle associazioni e delle fondazioni come humus del territorio, agente reticolare diffuso, unico che può far crescere in modo capillare il rispetto e la capacità di valorizzazione del patrimonio. Terminata le relazioni con l’appello a fare reti, la platea si è divisa in 14 gruppi tematici, per discutere e approfondire le tesi principali. Nessuno dei 200 partecipanti ha fatto notare che quello non era certo il modo migliore per avviare in pratica le sinergie che tutti avremmo voluto elaborare. Ormai ci siamo abituati, nei convegni numerosi, a veder suddividere la sessione di approfondimento in lavori tematici paralleli: è il modo più semplice per dare voce a 200 persone, posto che ormai non si partecipa ai convegni se non per intervenire. Ma democratizzando i palchi si sono svuotate le platee: più sono gli oratori minore è la disponibilità all’ascolto. E’ ovvio: se sono invitato a un convegno alla settimana per relazionare in un ambito specifico, dopo un paio di mesi riconoscerò tutti i possibili partecipanti al gruppo tematico, e finirò per annoiarli con le stesse considerazioni, per profonde che siano, cercando di non stare a sentire le loro, ugualmente ripetute. E d’altra parte non potrò mai sentire gli avanzamenti del tavolo tematico vicino, per me sicuramente interessanti.
D’altra parte la suddivisione per ambiti tematici è un criterio organizzativo nefasto ma ormai prevalente, dove si accetta un’impostazione concettuale riduzionista, che descrive il mondo assumendo come dominante un singolo aspetto e trascurando gli altri. La comodità nella descrizione si paga con la deformazione della realtà, che è sempre complessa e non riassumibile in specifiche singolarità e soprattutto con la perdita delle relazioni complementari, quelle che danno potenza alle reti, correlando in modo funzionale aspetti diversi.
Questa alterazione inquina pesantemente non solo i convegni ma anche le pratiche dei sistemi relazionali. Ad esempio, la gran parte dei patrimoni diffusi viene presentata come insieme tematico. Ce lo insegna l’UNESCO quando seleziona i beni seriali: i Paesaggi vitivinicoli, il Barocco in val di Noto, le Ville Palladiane, i Palazzi dei Rolli a Genova. Sono scelte che andrebbero verificate dal punto di vista scientifico, ma in ogni caso sono dannose quando vengono tradotte in pratica in modo rigido, banalizzando il concetto di rete e l’idea stessa di territorio Ad esempio i gestori locali finiscono per evidenziare gli itinerari che uniscono, come in un gioco enigmistico, i punti segnalati come siti (in Piemonte i vigneti, in Sicilia le chiese, in Veneto le ville, a Genova i palazzi), perdendo tutti gli effetti dei paesaggi rurali e urbani che li contengono. Non ci si rende conto che il turista non va di chiesa in chiesa, ma visita il territorio nel suo complesso, affascinato non da una sequenza di facciate barocche (o di versanti a vigneto), ma dalle cittadine che le sorreggono, dal paesaggio di contesto, fino al mangiare locale, alla cortesia dell’oste. Non ci si rende conto che in Italia il bene patrimoniale eccezionale è l’ostrica e non la perla, è la matrice territoriale, unica per storia e con un metabolismo tuttora vivace, e non il prodotto d’eccellenza, che è spesso ridotto a simbolo statico, in concorrenza con mille altri capolavori nel mondo.
Se il patrimonio fondamentale è il sistema generativo delle qualità vive del territorio, le nostre attenzioni di “conservatori” devono essere rivolte in primis agli aspetti relazionali che rendono funzionale il sistema: più ai soggetti che agli oggetti, più alle reti che integrano competenze e prodotti diversi che a quelle monotematiche, più alle alleanze tra soggetti complementari (come ad esempio tra enti locali e associazioni del III settore) che tra soggetti omologhi. Sono relazioni poco dotate di strumenti, mai promosse delle istituzioni, vive nonostante. Dobbiamo portare alle luce le reti fondate su relazioni fertili, quelle che fanno i sistemi vivi, che Piaget chiama morfogenetici, di collaborazioni tra soggetti attivi e luoghi.
Il territorio è già fertilizzato da relazioni spontanee, funzionanti in base a fattori di integrazione e di prossimità tra iniziative locali e attrattori di visitatori. Ma tutto accade senza visibilità né coordinamento, con una fragilità e una debolezza dovuta alla solitudine e alla ridotta dimensione, spesso con soggetti che si impegnano in progetti interessanti all’insaputa dei loro vicini, o degli enti locali che dovrebbero costituire il loro riferimento.
Quello di cui abbiamo bisogno è il racconto del paesaggio attivo, genere poco praticato in Italia, dove invece c’è ormai una domanda significativa e curiosa di conoscere persone e attività. Manca la capacità di rispondere a quella domanda. Fare Storia a partire dalla Cronaca, che è testimonianza del tessuto, su cui poi crescono le grandi opere come i lavori di ordito su un canovaccio preesistente e resistente. C’è bisogno di una mappa da aggiornare sistematicamente, importante e necessaria per colmare i vuoti enormi che lasciano le guide, riportando, quando va bene, solo le connessioni tra oggetti monumentali e paesaggi inattivi.
Le ragioni di queste mancanze e del ritardo con cui cerchiamo di intervenire vengono da lontano. Da quando gli ambientalisti ci hanno insegnato le potenzialità delle iniziative glocal, dove il radicamento locale si rafforza con reti lunghe, di confronti e conoscenze a livello mondiale, la componente global si è ingigantita, appoggiata alla rivoluzione del web. Ci pare di poter accedere all’intero sapere del mondo, o almeno alle attività in corso, in un clic. Non badiamo alla modalità con cui il clic seleziona gli argomenti di interesse: le parole chiave. E’ una modalità che comporta una organizzazione della conoscenza su base tematica, certo la più efficiente e veloce, ma con i difetti di semplificazione della complessità che abbiamo visto.
I semiologi ci insegnano che il nostro modo di comunicare (e probabilmente anche di pensare, dando un senso a ciò che percepiamo) è una pratica di sintesi continua tra un asse di comprensione tematico, in cui lo stimolo rimanda a concetti generali o a esperienze memorizzate, e un asse di comprensione delle regole di prossimità (tra le parole, tra le parti di una immagine) che consentono di capire l’insieme di quello specifico messaggio, stando attenti alle relazioni presenti in quello specifico caso. Senza questa parte (che chiamano delle relazioni sintagmatiche, come le regole della sintassi) capiamo solo frammenti, sillabe, e perdiamo il senso del discorso, dell’insieme.
Ecco: noi abbiamo drogato con il web la nostra attenzione alle reti tematiche globali e abbiamo lasciato rattrappire la competenza a capire con le relazioni locali, invertendo le dominanze vive sino a trenta anni fa, nelle civiltà contadine e urbane radicate, che proprio sulle relazioni locali, di diretta esperienza, fondavano la loro ragione pratica.
Ecco: ci occorrono nuovi pescatori che sappiano tendere reti locali, che ritrovino e raccontino le potenzialità della complessità, non delle parole chiave lanciate attraverso il mondo, ma delle vicinanze intriganti, della serendipity nascosta nei nostri paesaggi attivi.