150 anni fa, alla fine del 1867, Karl Marx ha dato alle stampe in Germania il primo volume della prima edizione di un’opera destinata a diventare centrale nella cultura occidentale: Il Capitale. Quest’opera, com’è noto, ha avuto un enorme impatto, al punto che da essa sono nati partiti politici, movimenti sociali e anche moti rivoluzionari. Ma il capitale a cui guardava Marx era quello che veniva prodotto dalle grandi fabbriche ottocentesche. Ben diverso da quello che si può chiamare il “capitale 2.0”, cioè quello che esce dai numerosi “clic” e dalle centinaia di parole che ogni persona produce quotidianamente sulle sue tastiere. È il capitale che le aziende del settore digitale sfruttano oggi in maniera elevata. (Scopri di più su:
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E tra queste aziende Google rappresenta un caso particolarmente interessante, perché può essere considerato esemplare. Si spiega così perché è già stato analizzato da una vasta letteratura internazionale e ora ci prova anche un gruppo di studiosi italiani di orientamento semiotico nel volume curato da Vincenza Del Marco e Isabella Pezzini e intitolato Nella rete di Google (FrancoAngeli).
Un volume che cerca di mettere a fuoco i principali aspetti di Google, ma deve fare i conti con il fatto che le aziende del digitale presentano un’elevata complessità. È faticoso perciò fornirne un’unica chiave interpretativa e non ci riesce neanche questo libro. Permette però di capire perché i programmi informatici siano diventati da diversi anni un elemento strutturale del sistema economico delle società avanzate. A partire dagli anni Settanta, infatti, tali programmi si sono velocemente diffusi grazie al crescente impiego del personal computer e allo sviluppo delle reti. Negli ultimi decenni però essi, nati all’interno del mondo digitale, sono progressivamente usciti da tale mondo e hanno sempre più prodotto degli effetti anche nel contesto culturale e sociale in cui operano, configurandosi perciò come un potente agente di trasformazione. Si può sostenere cioè che siamo di fronte al passaggio a un «capitalismo del software», ma è possibile anche parlare dell’instaurarsi di una vera e propria «società del software».
Se ciò avviene, è perché i programmi informatici contengono delle sequenze d’istruzioni che fanno funzionare tutti i principali ambiti della vita contemporanea.
Il software, infatti, si presenta come la «matrice» protagonista della trilogia di film Matrix diretta dai fratelli Wachowski: un elemento che non si vede, anche se è quello che fa funzionare l’intero mondo economico e sociale. Infatti, una delle sue principali caratteristiche è quella di operare in spazi nascosti alla vista, di solito collocati all’interno degli strumenti che vengono utilizzati dagli esseri umani. Del software però non possiamo fare a meno. Anzi, esso, come ha scritto Lev Manovich in Software culture (Olivares), «ricopre oggi la stessa importanza che avevano l’elettricità e il motore a scoppio nel Ventesimo secolo» (p. 10). A differenza di questi, però, il suo carburante è costituito prevalentemente dai dati e dalle informazioni. Certo, ha bisogno anche di sfruttare le tradizionali fonti di energia, ma basa la sua produzione di valore economico sulla raccolta e sul trattamento dei dati. E i dati, rispetto ad esempio al petrolio, hanno la qualità di non esaurirsi mai. È necessario solamente che vengano fatti circolare, che “zampillino” in continuazione da “oleodotti digitali” come Google. Ci penserà poi il software a “raffinarli”, a trasformarli cioè in valore economico.
Ne deriva che il software, pur essendo scarsamente visibile, è dotato di una sua materialità. Si può anche dire che ha una natura materiale articolata, la quale va dalla necessità di disporre di strumenti per la sua produzione alle conseguenze concrete che produce su ambienti e processi. Per funzionare però ha bisogno soprattutto di raccogliere dati e informazioni e questi sono relativi di solito alla vita privata delle persone. Spesso vengono forniti consapevolmente, ma va anche considerato che lo spazio sociale si sta riempiendo di sensori di vario genere collocati in oggetti che sorvegliano e registrano tutto quello che le persone fanno quotidianamente. Si raccolgono così enormi quantità d’informazioni sugli individui, che vengono identificati con sempre maggior accuratezza sia per quanto riguarda le loro caratteristiche biologiche e comportamentali, che per quello che è relativo al loro stato emotivo.
La promessa che viene fatta è sempre quella ed è irresistibile: poter migliorare qualcosa della propria situazione: la salute, la longevità, la sicurezza, le relazioni sociali, le prestazioni professionali, ecc. Pertanto, le persone partecipano attivamente a questi processi fornendo i propri dati. In maniera estrema, come nel cosiddetto movimento del «quantified self», i cui appartenenti rivendicano con forza la volontà di misurare attraverso gli strumenti digitali tutto quello che fanno nella loro esistenza. Ma anche, più in generale, accettando che, in cambio di qualche vantaggio, vengano portate avanti dalle imprese digitali delle politiche di misurazione sistematica di tutto ciò che riguarda la loro vita. Le persone, così, vengono puntualmente registrate e analizzate attraverso, ad esempio, i circa due milioni di parole che ogni minuto scrivono sul motore di ricerca di Google, impiegato in Europa il 90% delle volte. Oppure attraverso dispositivi indossabili o portabili come smartphone, bracciali e orologi. Il corpo umano viene misurato con precisione per quanto riguarda i segnali di tipo chimico, elettrico, meccanico o termico che emette. E anche grazie ai suoi gesti e movimenti nello spazio. La complessità della dimensione umana viene ridotta alla semplicità di quella corporea. Non è importante cioè quello che il cervello pensa ed esprime, ma quello che il corpo emette.
A patto naturalmente che possa essere misurato. Ci penseranno le nuove tecnologie sensoriali, con il loro software, a raccoglierlo e interpretarlo. Come ha scritto Cosimo Accoto nel recente Il mondo dato (Egea), «L’intervento e la partecipazione dell’uomo in questi nuovi contesti tecnologici di sensing non sono necessari: c’è produzione di sensorialità e di esperienza a prescindere dalla presenza e dall’attività umana diretta. Sistemi di intelligenza e analisi dei dati vengono attivati in automatico e in maniera artificiale per produrre senso e azione dai dati raccolti» (p. 52). L’essere umano vede così indebolirsi l’importanza della sua presenza e l’intero suo corpo viene progressivamente trasformato in input per il sistema economico e sociale. Il quale progressivamente migliora la sua capacità di analisi e comprensione. Al punto che alcuni oggi teorizzano che le macchine arrivino a comprenderci meglio di quanto noi stessi ci conosciamo.