“Le istituzioni sono le regole del gioco di una società o, più formalmente, i vincoli che gli uomini hanno definito per disciplinare i loro rapporti. Di conseguenza danno forma agli incentivi che sono alla base dello scambio, sia che si tratti di scambio politico, sociale o economico. Il cambiamento istituzionale influenza l’evoluzione di una società nel tempo ed è la chiave di volta per comprendere la storia”. Douglas North, premio Nobel per l’economia nel 1993, ci suggerisce che è la dimensione istituzionale e il suo nucleo identitario, il punto da cui ripartire per rigenerare una diversa idea di sviluppo. Ri-generare le istituzioni diventa così un obiettivo tanto perseguito quanto caratterizzato da complessità. (Scopri di più su:
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- Di Paolo Venturi, AICCON- Università di Bologna
In un’epoca caratterizzata da uno shock generazionale dove i figli hanno ormai maturato la certezza della più grande disuguaglianza possibile, ossia quella secondo cui il futuro che gli si prospetta è quello di “essere più poveri dei loro padri”, diventa centrale uscire dalle secche delle dicotomie su cui molti hanno prosperato (Stato/Mercato, Produzione/Redistribuzione), al fine di riscrivere percorsi di sviluppo in cui diventa centrale non solo il quanto si produce ma “il come” e il “dove” questo valore si sedimenta, si distribuisce. Per coltivare un’idea diversa di sviluppo che distingue ma non separa, occorre un pragmatismo istituzionale che concepisca il tempo del sociale non separato dal tempo economico e che non riduca la democrazia ai soli meccanismi di rappresentanza.
La vita democratica non riguarda, infatti, solo le procedure ma la definizione di uno spazio aperto di garanzie e di diritti perché ciò che non passa dalla politica, ma dalla società, non sia ridotto al rango di residuo o a qualcosa che tutt’al più può venire tollerato. E ciò per la fondamentale ragione che la società non è il mezzo della politica; è piuttosto il fine che la politica, col suo organo principale che è lo Stato, deve servire. La democrazia politica se non si basa sulla democrazia economica, prima o poi finisce per implodere.
Per quanto riguarda, invece, il tema dello sviluppo occorre partire da alcune evidenze. Nel welfare assistiamo, alla difficoltà delle istituzioni non solo a pianificare ma addirittura a programmare scenari in un contesto in cui l’impatto della demografia sulla cura e la salute dei cittadini sarà impressionante; in ambito economico nonostante ci si stia accorgendo della necessità di creare valore secondo logiche condivise (Share Value, Porter-Kramer) vediamo crescere la disuguaglianza attraverso le sembianze di nuove forme di capitalismo che si realizza attraverso piattaforme che annichiliscono il valore del lavoro con il miraggio della condivisione fra pari. In questo scenario si assiste ad un passaggio epocale, ossia il diniego “politico” del lavoro, favorito da un’economia secondo cui la figura centrale sarebbe oggi quella del cittadino-consumatore e non più quella del cittadino-lavoratore. Ciò in quanto nella IV rivoluzione industriale il capitale per la sua valorizzazione ha più bisogno dei consumatori che non dei lavoratori.
È proprio a causa di questo riduzionismo dell’idea di valore e lavoro, che nasce l’esigenza di una diversa classificazione della natura delle imprese. Non solo Profit e Non profit ma imprese estrattive e imprese inclusive (Robinson-Acemoglu 2012):
- Inclusive, sono quelle aziende che producono valore e lo legano prevalentemente al territorio e alle persone che lo han generato (normalmente questa “genia” d’impresa rende i territori + competitivi e con un più alto tasso di benessere).
- Estrattive, sono quelle imprese, che producono senza attivare relazioni di reciprocità con il territorio, ed il valore generato viene “estratto” per essere poi prevalentemente redistribuito distante dal luogo e dalla vita di ha contribuito a produrlo (questa “genia” d’impresa è forse (nel breve periodo) in grado di garantire la crescita del Pil, ma non lo sviluppo di un territorio).
Riscoprire il valore della democrazia economica attraverso lo sviluppo d’imprese inclusive è indispensabile non solo per depurare lo sviluppo dalla deriva economicista e finanziaria, ma anche per restituire alla politica la funzione di “regno dei fini” (e non solo dei mezzi come testimoniato dalle scelte politiche degli ultimi 10 anni spesso motivate dal “ce lo chiedono i mercati”).
In definitiva, abbiamo bisogno di ricongiungere mercato e democrazia per scongiurare il duplice pericolo dell’individualismo e della tecnocrazia statalista. “Si ha individualismo quando ogni membro della società vuol essere il tutto; si ha centralismo quando a voler essere il tutto è dimensione collettiva” (S. Zamagni).