Donatella Massai è una giovane donna che si è fatta le ossa lavorando con Medici senza frontiere. Parla tre lingue, appare quasi fragile, ma se provate a conoscerla...
Ha la faccia da Peter Pan, il carattere di Braccio di Ferro e un curriculum da Uomo Ragno. Donatella Massai, 36 anni, fiorentina, dieci anni trascorsi in giro per il mondo al servizio di Medici senza frontiere, è la nuova direttrice di Greenpeace Italia.
Dalle "stelle alle stelle" nel firmamento delle Organizzazioni non governative: anche se una si occupa di salute e l'altra di ambiente, godono entrambe di un'ottima fama da "duri e puri" dell'associazionismo.
E "dura e pura" deve esserlo persino lei, stando all'elenco delle sue esperienze professionali. Solo per citarne alcune: coordinatore medico in Colombia (conflitto armato); coordinatore d'urgenza in Etiopia (carestia); capo missione in Indonesia e a Timor Est (crisi umanitaria); coordinatore medico in Albania (emergenza rifugiati kosovari); coordinatore di progetto in Liberia (gestione distretto sanitario) e in Armenia (accesso alla salute); responsabile medico di terreno in Kenya (campi rifugiati) e nello Yemen (ospedale distrettuale).
La fanciulla parla tre lingue, ha cominciato come infermiera, ha preso un master in "politica internazionale" all'Università di Parigi e ha frequentato alcuni corsi di formazione a Bruxelles. È sposata con un ragazzo che lavora nel suo stesso campo e ha una bambina piccola. Speriamo che almeno... sia un po' antipatica.
In missione per la prima volta
E invece no. L'incontriamo in uno degli uffici più piccoli e stipati di carte del già piccolo e stipato appartamento che ospita la sede centrale di Greenpeace Italia, a Roma. L'ufficio le sta a pennello perché anche lei è piccola, ma sembra "stipata" di cose da raccontare. «Ho un curriculum che spaventa? Forse perché sono brava a scrivere», sorride. «Però è tutto vero, quello che c'è scritto. Io nasco come infermiera e ho subito cominciato a lavorare in un ospedale di Firenze, ma mi sentivo un po' stretta perché quello è un lavoro bellissimo, con un potenziale enorme, ma... credo che nelle strutture ospedaliere tutto questo potenziale non sia utilizzato, non sia valorizzato. Insomma, mi sentivo un po' stretta, avevo solo 22 anni, e così ho cominciato a guardarmi intorno ed essendo strumentista di sala operatoria, ho trovato la mia prima missione. Nel mondo delle Organizzazioni non governative i progetti si chiamano così, missioni. Insomma, sono partita per un piccolo villaggio dello Yemen dove bisognava aprire una sala operatoria. E là, in un Paese musulmano e anche abbastanza integralista, le uniche due donne non musulmane eravamo la ginecologa e io. Probabilmente mi consideravano una marziana, ma sono stata accolta in una maniera speciale e infatti l'anno trascorso là è un'esperienza che ho ancora addosso, forse la più significativa dal punto di vista personale. Per me non valeva la tradizionale separazione tra uomini e donne, ero accolta sia dagli uni, sia dalle altre. Questa esperienza mi ha fatto capire non solo quanto mi piacesse, dal punto di vista umano, questo tipo di relazione ma anche, dal punto di vista professionale, quanto avrei potuto fare di più con la mia professione fuori dall'Italia. In quelle circostanze ti rendi conto che non sei più un numero, o un lavoro, ma che, a seconda della tua personalità e delle tue competenze, puoi veramente fare tanto».
Piccoli ricordi e grandi passi
Il racconto prosegue, fatto di piccoli ricordi di vita quotidiana e di grandi passi: l'ingresso in Medici senza frontiere, il lavoro "sul campo" in quattro continenti, la preparazione "teorica" all'università («perché oltre alla pratica servono pure lo studio e la teoria»), gli incarichi sempre più prestigiosi all'interno dell'associazione, ma anche periodici ritorni al lavoro di base, sul campo.
«Ci vuole sempre una botta di umiltà», dice, «e se non te la dai da sola ci vuole qualcuno che te la dia perché altrimenti è pericoloso: bisogna sempre ricordarsi per chi stiamo lavorando, per la gente che sta male».
«Un piccolo sasso alla montagna»
Troppo idealismo? «Al contrario, io sono una con i piedi per terra, sono molto concreta, non ho mai pensato di poter cambiare il mondo anche se forse, a ventidue anni, una piccola parte di te ancora lo spera. Ma crescendo ho ridimensionato le mie aspettative. La mia idea è che se pure, in quanto individui, non possiamo fare tantissimo, almeno possiamo non nuocere, né all'ambiente né agli esseri umani, e magari fare qualcosa di più, portare un piccolo sasso alla montagna».
Ma perché, dopo dieci anni con Medici senza frontiere, è passata a Greenpeace? La salute e le sofferenze umane sono più importanti della salute e della sofferenza dell'ambiente... «Perché dopo dodici anni di pellegrinaggi, ora che mi è nata una bambina, ho sentito un po' di nostalgia per il mio Paese e il desiderio di far conoscere anche a lei le sue radici. Ma certo non avrei accettato un lavoro qualunque: volevo continuare a stare nel settore del no profit e cercavo un'organizzazione davvero indipendente e internazionale.
E poi, per me, l'ambiente è fondamentale. Credo che ambiente e salute, ambiente e diritti umani, ambiente e pace siano due facce della stessa medaglia. Oggi la Rainbow Warrior, la nave di Greenpeace, sta collaborando con Medici senza frontiere a Sumatra, per affrontare il dopo tsunami. Con gli stessi obiettivi».
Famiglia Cristiana, 9 febbraio 2005