L’evento europeo dello scorso fine settimana (l’incontro dei leader europei a Roma per fortuna conclusosi nel migliore dei modi, anche se poi in parte già contraddetto sul tema della gestione dei richiedenti asilo) deve essere l’occasione per una riflessione a bocce ferme sulla malattia nazional-populista che affligge una parte (per ora, e speriamo sempre, minoritaria) dell’opinione pubblica europea. Tale malattia (come ricordato dal Papa nel discorso ai capi di Stati e di Governo in occasione dell’evento) è figlia della perdita di memoria e dello smarrimento delle regole basilari dell’arte delle relazioni, materia sulla quale rischiamo di diventare un po’ tutti "analfabeti di ritorno". (Scopri di più su:
Avvenire.it)
Nel mondo di oggi due logiche diametralmente opposte e antitetiche si contrappongono. Quella dell’«uno meno uno fa zero», figlia dell’homo homini lupus hobbesiano dove la vita è un conflitto tra individui che si contendono una torta di dimensioni date. In questa visione del mondo non c’è spazio per la cooperazione perché le risorse sono fisse e dunque lo straniero che arriva nel nostro Paese, lo Stato membro dell’Europa che chiede più spazio va combattuto perché minaccia di comprimere il nostro spazio vitale (il lebensraum di hitleriana memoria).
La visione opposta che coglie una verità molto più profonda delle leggi nascoste della realtà sociale è quella dell’«uno più uno fa tre». La torta non è fissa. Il mondo è fatto di opportunità di crescita e sviluppo che possono essere colte solo attraverso la faticosa ma necessaria cooperazione tra diversi, il lavoro di squadra tra persone e Paesi che hanno talenti diversi e non sovrapponibili. È questo il principio alla base del commercio internazionale piuttosto che l’autarchia e il segreto del funzionamento di tutte le organizzazioni economiche e sociali.
La vita è un gioco di squadra e partiamo già sconfitti se scendiamo in campo da soli, la torta non è data ma se ne possono costruire di più belle e più grandi se solo si mettono assieme le forze e le diverse competenze. Se il suonatore di violino è ostile verso tutti coloro che suonano altri strumenti non potrà mai partecipare alla costruzione di un’impresa affascinante di una grande orchestra filarmonica. Questa legge della superadditività («uno più uno fa tre», ovvero il risultato del lavoro di team è superiore alla somma di ciò che saremmo riusciti a fare da soli) è la legge della vita umana dai tempi in cui le tribù primitive maggiormente capaci di sviluppare l’arte della cooperazione vincevano la gara della sopravvivenza perché in grado di organizzarsi per cacciare i grandi animali e difendersi meglio dai pericoli. E oggi le regioni d’Europa dove i singoli cittadini e le unità produttive gli Stati sono più capaci di cooperare per creare organizzazioni più strutturate e più grandi sono cresciute in prosperità sociale ed economica lasciando indietro quelle dove la molla della cooperazione non è scattata.
Cosa vuol dire tutto questo alla luce degli ultimi eventi? Che un passo indietro dell’Europa in questo delicato momento rischia di precipitarci di nuovo nell’incubo hobbesiano. Ma anche che la Ue si trova sulla soglia di benefici di cooperazione non ancora sfruttati. E deve necessariamente fare uno scatto in avanti di condivisione, cooperazione e solidarietà perché oggi è paralizzata da sfiducie e diffidenze che le impediscono di beneficiare dei vantaggi della superadditività.
Ovvero l’Europa diventa veramente un "affare" umano, sociale ed economico per i cittadini dei Paesi membri e può riconquistare i loro cuori se siamo in grado di fare il passo avanti che ci separa dalla condivisione del debito, dall’assicurazione europea dei depositi bancari, dalla creazione di alcuni pilastri della solidarietà e dell’inclusione come una tassa europea sulle piattaforme digitali, l’armonizzazione fiscale e la lotta all’elusione, una tassa sulle transazioni finanziarie e un reddito d’inclusione europeo per combattere la povertà. La via dell’«uno più uno fa tre» è sicuramente la migliore, ma se non sempre è quella scelta dalle comunità umane e di Stati un motivo ci sarà. Cooperare è difficile, rischioso, una vera e propria arte. Bisogna correre il rischio del trapezista che si lancia nel vuoto sperando che il compagno dall’altra parte tenderà una mano per salvarlo. Ovvero bisogna correre il rischio di mettersi nelle mani della controparte senza una rete perfetta di assicurazioni, garanzie e tutele.
Ci vuole fiducia da un lato e meritevolezza di fiducia dall’altro. E quella magnanimità iniziale, quella capacità di 'lanciarsi nel vuoto' che è propria dei grandi uomini e leader. La speranza è che i 'nuovi' che si affacciano (Schulz, Macron) o i 'vecchi' che si ricandidano (Merkel, Fillon) abbiano la grandezza d’animo di fare questo salto e superare l’apparentemente comoda sponda di una grigia e miope misura del proprio tornaconto di brevissimo termine. Papa Francesco ha parlato che una vera comunità è quella dove chi va più veloce sa rallentare per aiutare chi è rimasto indietro. E tra uomini e Stati ci sarà sempre una differenza di performance.
La vera qualità dell’organizzazione sta nella presenza o meno di un processo di convergenza o di divergenza (ovvero di riduzione o di aumento delle differenze). Senza questa larghezza d’animo ispirata da princìpi e valori che è alla radice dei processi di convergenza, le comunità umane si inceppano e non possono progredire. Siamo sempre alla ricerca di simboli positivi e forse quelle bandiere europee, non issate davanti a un palazzo di Bruxelles, ma sventolate ad una manifestazione di massa a Londra dove la Ue già non c’è più, e se ne avverte la mancanza, aiuteranno a darci una spinta per muovere nella direzione auspicata.