Le parole di Pinar Selek in occasione dell'incontro del 14 marzo a Palazzo Marino "I Giusto raccontano". (Scopri di più su:
Gariwo.net)
Buongiorno a tutti. È un bell’incontro. Un incontro di creazione. Una strizzata d’occhio a tutti (e tutte) i resistenti, che sono dei piccoli semi in questo mondo in fiamme. I semi delle future foreste dei Giusti. Ci siamo riuniti nella creazione di queste foreste. Per tirarci fuori da questi discorsi dominanti, dalle verità che ci vengono imposte. Per poter contribuire alla scrittura di un’altra storia. Quella degli e delle resistenti. Quella che trasforma la resistenza in creazione.
La parola resistenza ha due significati. Spesso, quando resistete alla repressione, vi trovate in una posizione difensiva. Ho riflettuto sulla questione soprattutto dopo le gravi torture che ho subito. Ho resistito. Si. Non gli ho dato quello che volevano. Ma ho ugualmente subito la loro tortura. Non sono riusciti a sottomettermi, ma hanno potuto fare quello che volevano del mio corpo. Se la vita passa solo con questo tipo di resistenza difensiva, è troppo stancante. Resistiamo, resistiamo, ci difendiamo contro qualcosa. E sono sempre i dominanti che determinano l’ordine del giorno.
Per questo, non vi parlerò di quello che ho subito o di quello che subiamo. Queste informazioni potete trovarle su Internet. Cercherò di riassumere la mia esperienza di creazione collettiva, in uno spazio sporcato, con un tessuto strappato dal nazionalismo, dal militarismo, distrutto dalla violenza sistematica.
Io sono un piccolissimo punto in questo grande quadro. Questo quadro, con tutti i suoi contrasti, ospita mondi diversi e dinamiche contraddittorie. In questo quadro ci sono la repressione, il nazionalismo, il militarismo, il sessismo, l’omofobia così come la resistenza. E non è un dettaglio. Fortunatamente.
L’esempio della Turchia ci permette di porci una delle domande essenziali del mondo di oggi. Fino a dove la violenza estrema può limitare la creazione della politica? Quando questa violenza distrugge la facoltà stessa di riflessione, possiamo uscire dal ciclo di violenza? È possibile allargare la propria visione, rimettersi in discussione e legare la resistenza con la creazione? Come ricostruirsi nonostante i numerosi rapporti di dominazione?
È difficile ma non impossibile. L’ho visto, l’ho vissuto. Parlo di un Paese la cui costruzione nazionale si poggia sul genocidio degli armeni, dove lo Stato-nazione è basato sulla concezione etno-confessionale, su un territorio svuotato e rovinato dal genocidio e da numerosi massacri. Parlo di un Paese dove in seguito a questa grande operazione di omologazione, anche gli uccelli hanno perso le loro voci, sotto il rumore di un linguaggio mitico-religioso. Parlo di un popolo che vive in un Paese di cimiteri senza tombe. Di una popolazione ferita e militarizzata che ha subito da tempo una formattazione nazionalista sistemica.
Fino agli anni ‘80, anche negli ambienti progressisti non si parlava né di armeni né di curdi, non parlavamo di storia. È per questo che non vedevamo bene la realtà. Ma da una ventina d’anni, succede qualcosa di miracoloso. Mi ricorda ciò che constatava Hannah Arendt: “L’essere umano stesso possiede manifestamente il dono di fare dei miracoli. Questo dono, lo chiamiamo nel linguaggio comune agire. È all’agire che spetta in particolar modo far scattare questo processo.” Possiamo vedere come, malgrado la repressione omicida, i nuovi movimenti emergano e agiscano, attorno a cause prima inedite, come il movimento femminista o LGBT, i movimenti curdi o armeni, come i movimenti ecologisti sociali e anti-militaristi. Il nuovo ciclo di contestazione, attorno a nuovi approcci di libertà, nasce negli anni ‘90, con la diffusione di cause inedite. L’anti-autoritarismo è lo spirito originario di questo ciclo che porta ad un cambiamento importante nelle forme di azione collettiva. L’emergenza di un nuovo vocabolario, di nuove interpretazioni del mondo e delle nuove organizzazioni si articola con il convergere dei movimenti di contestazione e attraverso il bisogno di solidarietà contro la repressione. Le alleanze permanenti danno luogo a un apprendimento delle lotte comuni, alla diffusione dei concetti, al “viaggio” delle idee. La partecipazione della nuova generazione della quale faccio parte, si realizza dopo tali convergenze, l’incrocio delle reti e le innovazioni successive dello spazio delle lotte sociali.
Il piccolo punto che sono si trova sui canali che le formiche aprono. Sono una in mezzo alle migliaia di formiche-cicale che lavorano e cantano nell’ombra. Malgrado le forti tensioni interiori ed esteriori, e malgrado la violenza statale messa in pratica dai vari governi conservatori, queste formiche-cicale con il loro piccolo contributo fanno miracoli da una ventina d’anni. Questa creazione si appoggia su un’autoriflessione, auto-trasformazione, su un distaccamento dall’egemonia. L’autonomia provoca la pluralità e la fluidità che permettono, a loro volta, di inventare nuovi metodi d’azione decostruendo il vocabolario politico esistente.
Questa fluidità potrebbe resistere alla guerra, alle nuove misure repressive, all’autoritarismo serpeggiante di un regime islamo-conservatore che attua una politica di re-islamizzazione della società e di deregolamentazione economica, giuridica e sociale? Questa trasformazione può dare speranza in un Paese bloccato, da qualche anno, in un tunnel di orrori? Paradossalmente, in quel tunnel, è possibile continuare il cammino. Magari come formiche acrobate, senza farsi notare e creando manifestazioni a sorpresa, mirando ai multipli tentacoli del sistema di dominazione. Con questa esperienza di libertà, l’azione politica guadagna significato. È incredibile vivere un miracolo, e sono felice di essere tra queste formiche-cicale.