I nuovi poteri che la Bce ha acquisito nel corso della crisi aggravano il problema della mancanza di controllo democratico nell’Unione. Una anticipazione del Rapporto Euromemorandum 2017. (Scopri di più su
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Vi sono evidenti segnali che la politica di forte creazione di liquidità messa in atto dalla Banca Centrale Europea (Bce) ha raggiunto i suoi limiti di efficacia, mentre i nuovi vasti poteri che la stessa Bce ha acquisito nel corso della crisi aggravano il problema della mancanza di controllo democratico all’interno dell’Unione. Al contempo, la principale iniziativa comunitaria in ambito finanziario, l’Unione dei mercati dei capitali, non sembra poter offrire alcun reale contributo alla ripresa economica.
Politica monetaria
Prima dello scoppio della crisi finanziaria del 2007-08 dominava una concezione minimalista della politica monetaria: alla banca centrale veniva richiesto di perseguire un obiettivo principale, la stabilità dei prezzi, attraverso uno strumento di base, il tasso di interesse a breve termine sul mercato del credito interbancario. Per reagire alla crisi, la Bce, come altre banche centrali, ha adottato politiche ben più articolate e attive, sebbene alcuni Stati membri, specialmente quello tedesco, abbiano accettano con riluttanza il cambiamento.
I tassi di interesse a breve termine sono stati ripetutamente abbassati (dopo un tentativo abortito di alzarli nel 2011) e sono diventati addirittura negativi per i depositi delle banche commerciali presso la Bce, il che ha portato a rendimenti negativi anche titoli a basso rischio, quali i titoli di stato tedeschi. Inoltre, è stato fatto largo uso di prestiti a lungo termine (Tltro – Targeted Long-Term Refinancing Operations, operazioni mirate di rifinanziamento a lungo termine) a beneficio del settore bancario, a tassi di interesse molto convenienti.
Il canale principale utilizzato per iniettare liquidità nell’economia è, però, consistito in una serie di acquisti di titoli – obbligazioni bancarie, titoli di stato dell’area euro, obbligazioni bancarie garantite da garanzie reali e, più recentemente, obbligazioni direttamente emesse da imprese. L’attuale programma di acquisto di obbligazioni prevede l’acquisto di 80 miliardi di euro al mese fino a marzo 2017, ed è stato prolungato fino alla fine del 2017, per un ammontare mensile solo leggermente ridotto (60 miliardi). In ogni caso, va evidenziato che i rischi associati all’acquisto di titoli di stato sono decentrati, in quanto ciascuna banca centrale nazionale dei Paesi dell’area euro detiene il debito del proprio stato.
La Bce
Queste misure – che sarebbero apparse completamente non ortodosse fino a pochi anni fa – hanno moltiplicato di molte volte il valore delle poste in bilancio della Bce, dai 500 miliardi di euro di prima della crisi finanziaria ai 3.000 attuali. Per alcuni versi, la politica monetaria è arrivata a comprendere decisioni normalmente ascritte alla sfera delle politiche di bilancio – ad esempio, la decisione di acquistare obbligazioni di specifiche imprese piuttosto che di altre implica un aiuto a specifiche imprese, settori produttivi e aree geografiche. Allo stesso tempo, la Bce ha acquisito nuove e maggiori responsabilità. Con la realizzazione dell’Unione Bancaria, la Bce rappresenta ora l’autorità di regolazione per la maggior parte delle banche commerciali dell’area euro, incluse le grandi banche e tutte le banche, pur di più piccole dimensioni, che hanno comunque un peso rilevante nelle economie del proprio Paese di riferimento. Supervisiona, inoltre, l’azione di regolamentazione delle banche più piccole da parte delle autorità nazionali e può intervenire, fino a soppiantare l’autorità nazionale, se emergono problemi di una qualche rilevanza per il sistema bancario nel suo complesso.
Tuttavia, per come è stata messa in atto, l’Unione bancaria impedirà ancora per molti anni a venire agli stessi finanziamenti concessi al sistema bancario di avere effetti significativi sull’economia reale. Le banche europee rimangono sotto-capitalizzate, mentre in molti Paesi, come l’Italia, le politiche di austerità recessive, indebolendo la posizione di imprese e famiglie clienti delle banche, rendono più fragile la posizione delle stesse banche.
Sostanziali responsabilità ai fini della stabilità finanziaria sono state attribui-te alla Bce anche in seguito alla localizzazione del Comitato europeo per il rischio sistemico a Francoforte, con Mario Draghi come presidente. Tuttavia, la Bce non è diventata un vero prestatore di ultima istanza, a differenza di altre banche centrali, a causa della forte resistenza dei rappresentanti tedeschi, che vedono tale funzione come un incoraggiamento per stati, banche e grandi imprese a indebitarsi eccessivamente. D’altra parte, problemi macro-prudenziali – il potenziale emergere di sostanziali minacce alla stabilità all’interno di un’economia di mercato – sono ora ampiamente riconosciuti e la Bce è stata incaricata di identificare gli strumenti per contrastare tali eventualità.
Infine, va ricordato che la Bce ha agito come un membro della Troika, assieme al Fmi e alla Commissione Europea, accettando di essere corresponsabile delle politiche estremamente dettagliate e intrusive imposte come condizioni per gli interventi volti al finanziamento in emergenza degli Stati membri colpiti dalla crisi. Da questo punto di vista, non c’è virtualmente nessun aspetto socio-economico di questi Paesi che non sia stato influenzato dalle decisioni della Bce[1].
L’Unione dei mercati dei capitali
Le banche europee, che avevano aumentato fortemente la leva finanziaria nei propri bilanci, erano tra le più esposte al mondo nella crisi esplosa nel 2007 negli Usa.
In un primo momento, in risposta ai problemi, la Commissione decise una pausa di riflessione nei suoi sforzi per portare avanti l’integrazione finanziaria europea attraverso una strategia essenzialmente basata sulla deregolamentazione dei mercati. In particolare, fu abbandonato il piano per promuovere un mercato europeo per i mutui sub-prime. La competenza in materia di integrazione finanziaria fu tolta alla Direzione generale mercato interno per essere assegnata, come distinta competenza, alla Commissione stessa. Le strutture di supervisione degli ambiti assicurativo, bancario e dei mercati azionari furono rafforzate; fu creato il Comitato europeo per il rischio sistemico e realizzato un ampio programma di riforme della regolamentazione, con la produzione di circa 40 atti di legislazione comunitaria.
Tuttavia, la Commissione Juncker, nominata nel 2014, è ritornata a una strategia di integrazione incentrata sull’espansione dei mercati. La sua principale proposta riguarda l’Unione dei mercati dei capitali, finalizzata a integrare i mercati obbligazionari, azionari e degli altri titoli nella Ue. L’iniziativa è fortemente influenzata dalla pratica statunitense: negli Usa, infatti, i mercati finanziari giocano un ruolo molto più importante che nella Ue, dove ancora il sistema è banco-centrico. Dietro gli sforzi della Commissione di spostare il modello finanziario europeo verso il modello statunitense ci sono una preoccupazione per la situazione generale delle banche Ue – ancora caratterizzate da una eccessiva leva finanziaria, sotto-capitalizzate e appesantite da prestiti di cattiva qualità – e la speranza che un passaggio verso una finanza basata sui mercati abbia un effetto positivo sul tasso di crescita, alleviando la crisi politica ed economica europea. Tale impostazione potrebbe anche aver segnato uno spostamento dell’enfasi dall’area euro al mercato unico, in particolare con riferimento al caso britannico, con i suoi smisurati mercati dei capitali e i suoi risultati economici, almeno negli anni recenti meno negativi di quelli che hanno caratterizzato l’Europa continentale.
I limiti della politica monetaria
Se si danno per acquisite le politiche di bilancio restrittive messe in atto in tutti i Paesi Ue, allora non c’è dubbio che politiche monetarie eccezionalmente accomodanti, qual è quella messa in atto dalla Bce, erano e rimangono imprescindibili. Politiche simili sono state necessarie anche negli Usa, dove la spesa pubblica e le politiche fiscali sono state molto più di sostegno alla crescita. In un contesto di crisi finanziaria senza precedenti, una politica diversa avrebbe verosimilmente portato a massicce vendite di titoli da parte di banche, aziende e individui indebitati e in difficoltà, il che avrebbe portato al totale collasso economico. Tuttavia, sono sempre più numerosi i segnali che indicano come bassi tassi di interesse e liquidità abbondante, sebbene condizioni necessarie, non sono però sufficienti a determinare il recupero necessario per fare passi in avanti contro la disoccupazione.
La Bce non sta riuscendo a raggiungere il proprio obiettivo di inflazione, appena al di sotto del 2%, e il tasso di crescita dei salari rimane troppo basso per raggiungere l’obiettivo; le previsioni della stessa Bce indicano che ancora alla fine del 2018 il tasso di inflazione sarà ben al di sotto dell’obiettivo; la conseguenza è una crescente pressione sui debitori, siano essi Stati sovrani, famiglie o imprese.
Un meccanismo attraverso cui l’abbondante liquidità ha influenzato la domanda aggregata è stato il deprezzamento dell’euro; tuttavia, il surplus di bilancia dei pagamenti dell’area euro rende un ulteriore deprezzamento improbabile e ciò risulterebbe comunque disfunzionale nel contesto economico globale.
Un’ampia offerta di credito stimola la domanda aggregata soltanto nella misura in cui la spesa è frenata da vincoli finanziari; ma oggi tali vincoli non sono troppo rilevanti nell’area euro, molte grandi imprese hanno ingenti scorte di liquidità e gli investimenti appaiono frenati soprattutto da incertezze sistemiche e insufficiente domanda.
Dal momento che le politiche della Bce implicano differenziali nei tassi di interesse pagati dai diversi Stati (premi per il rischio), tali differenziali si riflettono anche nei tassi pagati dalle imprese. I dati Bce indicano che i tassi mediani sui prestiti alle imprese in Paesi dell’area euro in difficoltà (Cipro, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Portogallo, Slovenia e Spagna) sono, per quanto bassi in senso assoluto (attorno al 4% annuo), circa doppi che nel resto dell’area euro[2]. Ma questi (e la Grecia in special modo) sono proprio i Paesi dove i vincoli finanziari sulle imprese sono più stringenti.
La disponibilità di credito a basso costo per sostenere l’attività economica porta a conseguenze indesiderate; una di queste è la possibilità di bolle speculative: i bassi rendimenti incoraggiano molti investitori a cercare maggiori guadagni investendo su titoli più rischiosi; l’abbondanza di credito agevola tali comportamenti e la crescita dei prezzi dei titoli oggetto della speculazione, al crescere del numero di coloro che decidono di investire in essi, può apparire una conferma dell’aspettativa di alti rendimenti. L’attuale alto numero di fusioni e scalate è, in effetti, interpretato da alcuni come prova dell’esistenza di una bolla speculativa e il rischio è che, in caso di inversione dei corsi azionari, molti di questi accordi, che non sono finalizzati a realizzare investimenti realmente produttivi e contribuiscono, anzi, a dirottare risorse lontano da essi, potrebbero alla fine risultare in un fallimento. Peraltro, anche nei mercati immobiliari vi sono evidenze di bolle sui prezzi in corso, in particolare in Germania e Slovacchia.
Un’altra conseguenza indesiderata è la crescente diseguaglianza che deriva dagli alti prezzi dei titoli – i prezzi degli immobili, ad esempio, tendono a crescere come frutto dei bassi tassi di interesse e degli acquisti di asset da parte della banca centrale.
Imprese assicurative e fondi pensione trovano sempre più difficile adempiere alle proprie obbligazioni nei confronti dei risparmiatori a causa dell’assenza di titoli sicuri che garantiscano un rendimento positivo. Ad esempio, uno studio della Bundesbank indica che il perdurare di tassi di interesse nulli potrebbe portare al crollo di molte compagnie assicurative nel ramo vita in Germania.
Per tutte queste ragioni, una “normalizzazione” della politica monetaria, che porti i tassi di interesse su livelli bassi ma positivi, potrebbe essere desiderabile, ma solo nel contesto di una politica fiscale più espansiva. Invece, figure di rilievo della Ue, come il presidente della Bundesbank Jens Weidmann e il Commissario Pierre Moscovici, chiedono una normalizzazione monetaria ma, allo stesso tempo, politiche fiscali ancora più restrittive in Francia, in Italia e altrove – il che non potrebbe portare ad altro che a un’ulteriore recessione e caduta dell’occupazione.
Note al testo:
(1) Hans-Jurgen Bieling e Mathis Heinrich: Central Banking in der Krise. Neue Rolle der Europaischen Zentralbank im Finanzmarktkapitalismus, “Widerspruch”, n. 66, 2015.
(2) BCE: Financial Integration in Europe, aprile 2015, p. 29.