Le prigioni di cui parla il contributo di Nicla Vassallo sono prigioni di cui tutti noi facciamo esperienza quotidiana. Le estensioni tecnologiche di cui ci serviamo per amplificare le nostre facoltà di spostamento, i nostri sensi e il nostro potere comunicativo sono allo stesso tempo prigioni e strumenti di liberazione. (Scopri di più su:
DoppioZero.com)
Per i lavoratori studiati dalla sociologa Judy Wajcman, le nuove tecnologie digitali rappresentavano spesso uno strumento di ulteriore schiavitù e compressione dei tempi di lavoro (in Pressed for time. The Acceleration of Life in Digital Capitalism), eppure la Wajcman ha dimostrato come questa percezione non fosse dovuta né determinata dalle tecnologie di comunicazione digitale ma dal trionfo di un certo modello di organizzazione del lavoro.
Secondo la Wajcman non siamo ostaggi, prigionieri, dei nostri strumenti di comunicazione (questa è invece la tesi del recente libro di Sherry Turkle), siamo invece ostaggi dell’etica produttivista imposta dall’attuale sistema economico che governa le nostre vite. Le tecnologie di comunicazione sono ormai embedded nelle nostre pratiche quotidiane, secondo Wajcman e il loro uso è socialmente strutturato. Negli studi della Wajcman emerge in realtà un’immagine di queste tecnologie – lo smartphone su tutti – estremamente emancipatoria, ma il grado e il confine di questa emancipazione dipendono dalla posizione sociale o dalla gerarchia lavorativa dei soggetti studiati.
Provate a immaginare la vostra vita senza le email.
Per alcuni sarebbe una liberazione, e lo è per molti, almeno due settimane l’anno (tutti abbiamo diritto al silenzio e all’irraggiungibilità). Per altri sarebbe un inferno e di sicuro rappresenterebbe una perdita di potere enorme, soprattutto da parte di chi potere ne ha poco, come ad esempio gli studenti, che se non avessero le email per scrivere ai professori, potrebbero raggiungerli solo tre-quattro volte al mese nei loro uffici, ma solo in orari molto ristretti. In questo senso le email sono strumenti estremamente democratizzanti, che danno poteri nuovi a chi non ne ha e rendono raggiungibile chi prima non lo era. Scriveva Joshua Meyrowitz già nel 1985 in Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, “attraverso i media elettronici, chiunque ha un accesso più facile ed è diminuito il vantaggio relativo delle figure di status tradizionalmente superiore, che non possono più isolarsi informativamente attraverso l’isolamento fisico. Il luogo assume minore rilevanza. (…) i media elettronici non solo scavalcano molti canali precedenti, ma indeboliscono tutto il sistema di gerarchia e scala e di autorità delegata” (pp. 280-83).
Ora sappiamo che in parte questa tendenza dei media elettronici ad abbattere i confini geografici e diminuire le distanze sociali è piuttosto illusoria, ma non per questo possiamo negarne l’esistenza.
Nel momento in cui queste distanze si accorciano e si estende a un numero maggiore di persone la facoltà di comunicare con qualcuno prima irraggiungibile o si estende la capacità di esprimere un’opinione su qualcuno prima irraggiungibile, si pone il problema della “giusta distanza”, che spesso le persone non sanno rispettare, abusando dei propri nuovi, formidabili, poteri comunicativi. Chi va in oversharing su Facebook, pubblica cioè valanghe di post al giorno, chi manda dieci email al giorno al professore, anche solo per chiedere informazioni facilmente reperibili online, chi si trasforma in un super volontario per Wikipedia e pubblica decine di voci senza averne le competenze.
Una figura pubblica oggi non ha più il controllo di tutte le informazioni che vengono pubblicate su di essa. Le persone parlano delle figure pubbliche, lasciano tracce digitali di ciò che pensano di queste figure, e una democrazia sana deve potersi permettere che questo accada, anche se le persone non sanno rispettare la giusta distanza.
Ma il processo di produzione di informazioni oggi non è più appannaggio di pochi gatekeeper, o intermediari. Siamo tutti medium, e la soluzione ai rischi messi in evidenza da Nicla Vassallo non è un ripristino dell’autorevolezza degli intermediari tradizionali, ma un aumento dell’autorevolezza di ogni singolo medium, di ogni singolo intermediario. Così come abbiamo imparato a camminare e a comportarci tra amici, stiamo imparando a vivere insieme, costantemente immersi nei flussi di comunicazione che produciamo. In questo essere tutti medium c’è una grande responsabilità, per questo dovremmo imparare a non condividere notizie dubbie, o provenienti da fonti non affidabili, o dovremmo imparare a contenere i nostri animi nei commenti, sapendo che dall’altra parte c’è una persona in carne e ossa che potremmo ferire. Dovremmo anche imparare a capire come funzionano questi strumenti, per averne meno paura e dominarli un po’. Wikipedia ha molti problemi e non è il paradiso della conoscenza di cui tutti parlano, ma è allo stesso tempo un grande esercizio di costruzione di conoscenza collettivo e ogni giorno fornisce informazioni attendibili a milioni di persone su argomenti di ogni tipo, gratuitamente. È un patrimonio dell’umanità ormai, e trovo sia davvero fuorviante paragonarla alla tirannia di Facebook. Wikipedia è una fondazione no profit, Facebok una società per azioni. Se vogliamo discutere criticamente i media digitali che usiamo, impariamo prima a capirne l’economia politica sulla quale si fondano. Wikipedia, con tutte le debolezze di una conoscenza continuamente negoziata collettivamente e variabile in funzione di culture diverse o in lotta, rimane un luogo dove la creazione collettiva di contenuti non è monetizzata da nessuna società off-shore, mentre Facebook trasforma la creazione collettiva di contenuti in asset finanziari.
Nell’intervento di Nicla Vassallo apprezzo il timore per la tirannia e lo strapotere di alcuni giganti dei media come Facebook, ma non ne apprezzo il pregiudizio nei confronti dei media digitali in generale e delle persone che li utilizzano.
In fondo, non c’è alcuna differenza tra fare gli auguri al telefono o su Facebook: in entrambi i casi stiamo usando un canale di proprietà di un’azienda privata. Non siamo persone migliori se usiamo il telefono. Quando il telefono era il Facebook dei nostri tempi, qualcuno (molto snob, sia chiaro) avrà sicuramente detto a un amico: “Ma perché dovrei mettere il telefono in casa per ricevere la tua telefonata di auguri? Non puoi inviarmi un bigliettino con la tua firma in ceralacca?”.
Quando eravamo in pochi a utilizzare internet, internet poteva ancora essere uno strumento di distinzione sociale (e di distanziamento sociale). Ora che internet lo usano tutti, signora mia, come possiamo tenere le masse a distanza? Dobbiamo uscire da internet, o da Facebook, per sfuggire alla pressione sociale. Credo che la tirannia di cui parla la Vassallo sia la tirannia del vivere in società, non la tirannia di una tecnologia usata per farsi gli auguri.