“La tentazione del Bene è molto più forte di quella del Male”: Boris Cyrulnik e Tzvetan Todorov a confronto. (Scopri di più su:
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Il neuropsichiatra e il filosofo, il sopravvissuto al nazismo e il testimone del comunismo in Bulgaria. Su un
blog di Le Monde, il giornalista Nicolas Truong ha messo in comunicazione due grandi della cultura europea per parlare di totalitarismo, minaccia terrorista, crisi dei valori, responsabilità di chi si macchia di crimini e di chi cerca di resistervi. I due studiosi parlano poi anche della depressione che allignerebbe tra i francesi in seguito agli attentati jihadisti e della possibilità di dare una risposta "resiliente" a tali eventi drammatici. Di seguito la traduzione completa del confronto.
Boris Cyrulnik è neuropsichiatra e Direttore didattico dell'università di Tolone. Tzvetan Todorov è storico e Direttore onorario delle ricerche al CNRS.
Tutti e due hanno attraversato la nostra epoca in modo singolare e sono diventati dei pensatori osannati dal pubblico degli osservatori impegnati delle nostre società.
Cyrulnik, nato nel 1937 in una famiglia di immigrati ebrei dell'Europa centrale e orientale, è stato uno dei rari scampati alla retata del 10 gennaio 1944 a Bordeaux e ha divulgato, molti anni più tardi, il concetto di «resilienza», questa capacità psichica di ricostruirsi dopo un trauma. Todorov, nato nel 1939 a Sofia (Bulgaria) e teorico della letteratura, raggiunge Parigi nel 1963 e a partire dagli anni '80 si interessa alle questioni della memoria e del rapporto con l'altro.
Boris Cyrulnik ha pubblicato Ivres paradis, bonheurs héroïques (“Paradisi ebbri, felicità eroiche”,Odile Jacob, 2016), opera sul bisogno e la necessità degli eroi per vivere e sopravvivere. Tzvetan Todorov ha scritto I non sottomessi (Robert Laffont/Versilio, 2015), ritratto di quei contemporanei che, come Etty Hillesum o Germaine Tillion, Malcolm X o Edward Snowden, hanno saputo dire “no” e hanno fatto prova di resistenza all'oppressione.
Tutti e due dialogano sulla capacità degli individui di muoversi nelle “barbarie” oppure di resistevi nel momento in cui un'Europa annichilita e terrorizzata dagli attentati si interroga sul suo divenire.
Quali eroi vi hanno aiutato a strutturarvi?
Tzvetan Todorov (T. T.) : Sono cresciuto in un regime totalitario comunista nel quale i modelli per i bambini erano personaggi come Pavlik Morozov, un ragazzo che aveva denunciato suo padre come kulako, fatto in seguito al quale il genitore fu ucciso dalla famiglia. Oppure personaggi che avevano lottato contro il «giogo turco» nel XIX secolo. Tutto ciò non aveva in me grande risonanza, ma io amavo e ammiravo molto i miei genitori e i miei amici.
Giunto in Francia all'età di 24 anni, avevo contratto una diffidenza generalizzata verso tutto ciò che lo Stato difende e che derivava dalla sfera pubblica. Progressivamente, però, ho interiorizzato la mia nuova situazione di cittadino di una democrazia – e in particolare una sorta di piccolo muro è caduto nella mia anima contemporaneamente al muro di Berlino, permettendomi di accedere a tale sfera pubblica. Non mi sentivo più condizionato da quell'infanzia e adolescenza vissute in un mondo totalitario. Cionondimeno rimanevo indifferente ai grandi personaggi eroici, glorificati nel quadro del comunismo, e attaccato a individui del tutto ordinari che non cercavano di sacrificare la loro vita, ma testimoniavano piuttosto di una cura quotidiana per gli altri.
Due personaggi mi hanno segnato particolarmente per via del loro percorso di vita e dei loro scritti. In Vita e Destino, questo romanzo epico sulla seconda guerra mondiale dello scrittore russo Vassili Grossman [1905-1964], c’è un’idea forte che non mi abbandona mai : la tentazione del Bene è pericolosa. Come dice un personaggio di questo libro, “là dove inizia l’alba del Bene, i bambini e i vecchi periscono, il sangue viene versato”, ed è per questo che al Bene bisogna preferire la semplice bontà, che passa da una persona a un’altra.
La seconda figura che mi ha segnato parecchio, è stata Germaine Tillion [1907-2008], etnologa e storica, resistente e deportata, che ho incontrato quando aveva 90 anni ma li portava con un gran fascino. Mi ha illuminato non soltanto grazie alla sua vitalità, ma anche per il suo percorso : durante la guerra d’Algeria, aveva consacrato tutte le sue forze a salvare vite umane, di qualsiasi origine, rifiutandosi di ammettere che una causa giusta rendesse legittimo l’atto di uccidere. Vedete, i miei eroi non sono personaggi eroici, ma piuttosto dei resistenti.
Boris Cyrulnik (B. C.) : Tzvetan Todorov è stato allevato all’interno di un regime sicuramente totalitario, ma anche in seno a una famiglia e a istituzioni sociali, sicuramente molto oppressive, ma strutturanti. Invece la mia famiglia è stata spazzata via durante la seconda guerra mondiale. Dopo la guerra ho ritrovato una zia che mi ha accolto e uno zio che si era unito alla Resistenza all’età di 17 anni, ma durante il conflitto pensavo che tutta la mia famiglia fosse morta.
Solo, senza una struttura, senza una famiglia, avevo ben compreso di essere condannato a morte. Arrestato all’età di 6 anni e mezzo dai nazisti, avevo chiaramente compreso che era per uccidermi. Non c’era alcun dubbio. Io avevo bisogno di eroi perché ero solo, non avevo un’immagine con cui identificarmi, né da respingere. Opporsi voleva dire esistere. Io, non avevo nessuno, solo il vuoto, non sapevo neanche che ero ebreo, cosa che ho appreso il giorno del mio arresto, apprendendo anche che essere ebreo era una condanna a morte. Quindi io ho avuto un’ontogenesi molto diversa da quella di Tzvetan Todorov.
Il mio carnefice non ci considerava esseri umani e, nella mia anima, io mi dicevo : “Bisogna che io diventi forte fisicamente come Tarzan, e quando sarò forte come Tarzan andrò a ucciderlo”. Tarzan mi serviva da immagine con cui identificarmi Ero piccolo, ero rachitico – ho ritrovato delle mie foto del primo dopoguerra, ero di una magrezza incredibile -, quindi mi dicevo: “Bisogna che io diventi grande, che diventi forte e muscoloso per poterlo uccidere”. Quindi Tarzan mi ha salvato.
Che cosa fa sì che un individuo si leghi più a degli eroi benefici o più a degli eroi malefici? La tentazione del Male è potente quanto quella del Bene?
T. T. : Per me, la tentazione del Male non esiste quasi affatto. Ai miei occhi è molto marginale. Esiste senza dubbio qualche frangia di persone che vogliono concludere un patto con il diavolo e far regnare il Male sulla Terra, ma da questo punto di vista rimango piuttosto un discepolo di Grossman, per il quale il Male essenzialmente proviene da coloro che vogliono imporre il Bene agli altri. La tentazione del Bene mi sembra pertanto molto più pericolosa di quella del Male.
Direi, correndo il rischio di essere frainteso, che tutti i grandi criminali della storia erano animati dal desiderio di diffondere il Bene. Perfino Hitler, il nostro “male esemplare”, che desiderava effettivamente il Male per ogni tipo di popolazione, allo stesso tempo sperava nel Bene per la razza germanica ariana alla quale pretendeva di appartenere.
Ciò è ancora più evidente per quanto riguarda il comunismo, che è un’utopia universalista, perfino se, per realizzare tale universalismo, si sarebbero dovuti eliminare numerosi segmenti sociali della stessa umanità, che non meritavano di esistere: la borghesia, i kulaki etc. I jihadisti di oggi non mi sembrano animati dal desiderio di fare il Male, ma di fare il Bene, con mezzi che noi giudichiamo assolutamente abominevoli.
Per tale ragione, io preferisco non parlare di “nuovi barbari”, perché la barbarie che cos’è in fin dei conti? La barbarie non è lo stato primitivo dell’umanità: fin dalle prime tracce di vita umana, si trovano prove di generosità e di aiuto reciproco. Dei giorni nostri, gli antropologi e i paleontologi affermano che la specie umana ha saputo sopravvivere e imporsi, pur non essendo la più forte fisicamente, grazie a un'intensa cooperazione tra i suoi membri, che ha permesso di difendersi contro le minacce che incombevano su di essa.
La barbarie è piuttosto il rifiuto della piena umanità dell’altro. Ora, bombardare sistematicamente una città del Medio Oriente non è meno barbaro che sgozzare un individuo in una chiesa francese; anzi, forse uccide anche più persone. Nel corso degli attentati di cui Parigi è stata vittima ultimamente, si è sottostimato l’elemento del risentimento, della vendetta, delle rappresaglie che è subito risultato evidente quando si sono potute interrogare le persone o sentire le loro dichiarazioni al momento dei loro atti. Non si trattava di una modalità irrazionale, perché essi pensavano di raggiungere i loro obiettivi uccidendo indifferentemente tutte le persone che si trovavano sul loro cammino: volevano rispondere alla guerra con la guerra, il che è una logica ben presente in tutto l’arco della storia dell’umanità.
Che cosa fa sì che si propenda per la scelta di compiere dei massacri in nome di un’ideologia?
B. C. : Si propende verso tale scelta quando ci si sottomette alla teoria dell’Uno, come diceva il linguista tedesco Victor Klemperer. Se si comincia a pensare che c’è solo un vero Dio, allora gli altri sono falsi dei, coloro che vi credono sono dei miscredenti, dei “mal credenti” la cui messa a morte diventa quasi un dovere morale. Se ci si sottomette alla teoria dell’Uno, si può cadere in questo fenomeno.
La parola « barbaro », in effetti, non è adeguata. È all’interno della bella cultura germanica di Goethe e Kant che si è svolta una delle tragedie più vergognose del XX secolo. Lo psichiatra americano Leon M. Goldensohn [1911-1961], il quale, durante il processo di Norimberga, analizzava la salute mentale dei ventuno accusati nazisti, interrogò Rudolf Höss, il direttore del campo di Auschwitz, il quale in sostanza gli rispose: «Ho passato ad Auschwitz i più begli anni della mia vita», Come si può pensare una cosa simile? Rudolf Höss proseguì dicendo : «Andavo d’accordo con mia moglie e avevo quattro bambini che amavo molto».
Nei Taccuini di Norimberga, dove figurano questi dialoghi, c’è perfino la foto della casetta e della «felicità » domestica del direttore del campo di Auschwitz. «Allo stesso tempo, continuò questi, avevo un mestiere molto difficile, sapete, bisognava che facessi sparire, che bruciassi 10.000 corpi al giorno, e questo, era difficile, sapete».
Quindi l’espressione che io propongo per comprendere questo fenomeno paradossale è quella di "morale perversa". Un individuo può essere perfettamente etico con i suoi cari, che cerca di proteggere e comprendere – "mia moglie, i miei figli -, ma gli altri, gli ebrei, non sono gli altri.. gli zingari non sono gli altri.. i Negri sono umani, ma sono inferiori, quindi se ne farà una selezione. È morale eliminare gli ebrei come è morale combattere le imperfezioni di una società, affinché la nostra bella razza bionda e con gli occhi azzurri ariani si possa sviluppare in maniera sana".
È in nome della morale, in nome dell’umanità che sono stati commessi i peggiori crimini contro l’umanità, i crimini più immorali. Morale perversa, quindi, si è morali con chi condivide il nostro mondo di rappresentazioni e si è perversi con gli altri. La definizione di perversione in effetti è proprio questo, per me: quella di Deleuze e Lacan: è perverso colui che vive in un mondo senza gli altri.
T. T. : Il giudizio morale si costituisce a più livelli successivi. Inizialmente, la distinzione stessa tra il Bene e il Male può essere assente, non avendo circondato il piccolo essere umano di cure e per averlo protetto con alcuni attaccamenti. Il risultato di questa carenza è il nichilismo radicale. Il secondo passo nell’acquisizione del senso morale consiste nel dissociare l’opposizione tra il Bene e il Male da quella tra Noi e gli Altri; l’avversario qui è l’egoismo o, sul piano collettivo, l’etnocentrismo. Infine il terzo grado consiste nella rinuncia a qualsiasi ripartizione sistematica tra Bene e Male, a non situare questi termini in qualunque parte dell’umanità, ma ammettere per contro che tali giudizi si possono applicare sia a noi che agli altri. Quindi, nel combattere il manicheismo del giudizio.
In ciascuno di questi stadi si può inserire la perversione di cui si parla. Non esistono due specie di esseri umani, coloro che rischiano di sbagliare e gli altri, di cui facciamo parte, e ai quali non capiterà mai. D’altro canto, se ci aprissimo a una compassione universale, non si potrebbe più vivere, ma si dovrebbero aiutare tutti i senza tetto, tutti i mendicanti che si incontrano sulla strada, e condividere con loro ciò che si ha. Ora questo non lo si fa e non lo si può fare – salvo se si è dei santi. C’è una sorta di equilibrio che dev’essere stabilito tra l’autotutela e il movimento verso gli altri, ma ignorare l’esistenza degli altri vuol dire cessare di essere pienamente umani.
B. C. : Fui imprigionato dentro la sinagoga di Bordeaux, dove 1.700 ebrei erano stati rastrellati il 10 gennaio 1944 da Maurice Papon. Non ci sono stati che due sopravvissuti, me compreso. E ho ritrovato i figli e i nipoti della signora Blanché, la donna morente sotto la quale mi ero nascosto per sfuggire al rastrellamento. Con loro ho tuttora relazioni amicali. Sì, la vita è folle, è un romanzo.
Quando fui imprigionato, c’era un soldato tedesco in uniforme nera che era venuto a sedersi accanto a me una sera. Mi parlava in tedesco e mi mostrava delle foto di un ragazzino. E ho compreso – senza conoscere la sua lingua – che assomigliavo a suo figlio. Quell’uomo aveva bisogno di parlare della sua famiglia e di suo figlio che non poteva vedere. Gli faceva bene. Si può dire che io abbia cominciato la mia carriera di psicoterapeuta quella sera!
Perché era venuto a parlarmi ? L’ho compreso leggendo Germaine Tillion, che racconta che, quando le nuove reclute di donne SS arrivavano a Ravensbrück, erano atterrite dall’atrocità del luogo. Ma, a partire dal quarto giorno, diventavano crudeli come gli altri. E, quando Germaine Tillion teneva delle « conferenze » la sera davanti a Geneviève de Gaulle e Anise Postel-Vinay, spesso vi parlava dell’umanizzazione dei guardiani del campo.
Lei diceva così: ciò che ci faceva bene, quando si vedeva un guardiano corteggiare una donna delle SS, era che quindi si trattava di un essere umano. Lei non voleva demonizzare coloro che la condannavano a morte, ma voleva cercare di scoprire il loro universo mentale. È stato leggendo Germaine Tillion che mi sono detto : « Ecco, ho avuto a che fare con degli uomini, non con dei mostri. Perché comprendere, non è giustificare, ma essere padroni della situazione. Arrestato all’età di sei anni e mezzo, ero considerato come « ein Stück », una cosa che si poteva bruciare senza rimorsi, uccidere senza colpa, perché non ero un essere umano, bensì « ein Stück ».
Dunque, contrariamente a ciò che si dice spesso, soprattutto a proposito del jihadismo, occorre cercare di comprenderlo, e non rifiutarsi per principio di darne una spiegazione?
B. C. : Certamente. La comprensione permette di lottare e di agire. Per esempio, sul piano psicosociale, la parola “umiliazione” viene utilizzata quasi sempre da coloro che passano all’azione. L’umiliazione del trattato di Versailles è stata momentaneamente reale, perché per qualche anno i tedeschi non poterono ricostruire la loro società, dovendo pagare tutto ciò che guadagnavano in danni di guerra alla Francia.
Ma i tedeschi dimenticarono di dire che negli anni ’20 – quando i politici compresero che ciò impediva alla Germania di ricostruirsi – ci fu un vero e proprio piano Marshall per aiutare il loro Paese. Dunque la parola “umiliazione” servì da arma ideologica per legittimare la violenza dei nazisti – come quella dei jihadisti, d’altronde. Tutti i totalitarismi si dichiarano in stato di legittima difesa. Pare loro normale e perfino morale uccidere senza vergogna, né senso di colpa.
Al giorno d’oggi, su circa 8.400 ricercati, come ricorda un’inchiesta del CNRS si registrano circa 100 psicopatici. La psicopatia non è una malattia mentale, ma una carenza educativa e culturale grave. Si tratta di bambini che non sono stati strutturati dalla loro famiglia, cultura o ambiente. Quando non c’è alcuna struttura intorno a un bambino, questi diventa “anomico”, e si vede riapparire molto rapidamente il processo arcaico di socializzazione, vale a dire la legge del più forte.
Michelet lo diceva: quando lo Stato fallisce, compaiono le streghe. Cento psicopatici su 8.400 casi sono la prova di un fallimento culturale. Si tratta di una minoranza, ma è una maggioranza nelle notizie e nell’immaginario perché il Bataclan, lo Stade de France, Nizza o il 13 novembre sono stati avvenimenti atroci e spettacolari che uniscono una parte di questi assassini.
T. T. : Molto spesso, questi giovani che si uniscono al jihad cercano un senso da dare alla propria vita, perché hanno l’impressione che la vita intorno a loro non abbia una finalità. Ai loro insuccessi scolastici e professionali si aggiunge la carenza di un inquadramento istituzionale e spirituale. Quando sono arrivato in Francia nel 1963, esisteva un inquadramento ideologico molto potente fornito dai movimenti giovanili comunisti e cattolici. Tutto ciò è sparito dal nostro orizzonte e l'unica realizzazione, l’unico sbocco degli sforzi individuali, è il tentativo di arricchirsi, di potersi offrire uno o un altro segno esteriore di successo sociale.
In una maniera molto morbosa, la jihad è il segno di tale ricerca globale di senso. È il segno di questa volontà di impegnarsi in un progetto collettivo che viene a coinvolgere spesso persone che fino a quel momento erano in prigione per piccoli furti e crimini di minore entità, ma che smettono di spacciare, di bere o di fumare hashish per mettersi al servizio di una dottrina vera, di quell’ ”Uno” di cui stavate parlando. Sono prima di tutto pronti a sacrificare la vita degli altri, ma poi anche la propria.
Ci sono degli eroi o delle contro-narrazioni che possono permettere di strutturare meglio il loro universo mentale?
T. T. : Sì, io credo molto a questa forza del racconto, che è molto più grande di quella delle dottrine astratte e che può segnarci in profondità senza che ne siamo coscienti. Questi racconti possono prendere la forma di immagini ideali, come Tarzan e Zorro per Boris Cyrulnik. Ma ce ne sono anche molti altri. Nei miei libri, cerco di raccontare a me stesso delle storie, che si tratti della conquista dell’America o della seconda guerra mondiale. Tuttavia è un lavoro che deve ripercuotersi anche sulla nostra cultura politica e sul mondo dell’istruzione e dell’educazione.
In una classe di una scuola parigina di oggi, si trovano bambini di quindici origini differenti. Come si può, senza che scappi da ridere, parlare loro dei nostri antenati, i galli? Non penso tuttavia che si dovrebbero insegnare loro la storia o la memoria delle quindici nazionalità che si ritrovano nella classe. Bisogna insegnare loro una storia della cultura dominante, quella del Paese dove si trovano, ma in maniera critica, ovverosia senza identificare alcuna nazione con il Bene o il Male. La storia infatti può permettere di comprendere come una nazione o una cultura possa scivolare e passare nel Male, ma anche a elevarsi al di sopra degli interessi meschini del momento e contribuire anche a una migliore vita comune. In breve, a uscire dal manicheismo che sta tornando in forze, al giorno d’oggi.
Come vi spiegate ciò che appare come una depressione collettiva francese?
B. C. : Le condizioni reali d’esistenza di un individuo hanno raramente a che vedere con il sentimento di depressione. Si possono avere tutti i segni del benessere – lavoro e famiglia stabili – e deprimersi. E, in maniera inversa, si può vivere in condizioni materiali molto difficili e non cadere nella depressione. Non c’è una causalità diretta tra un elemento e l’altro. Si può avere un sentimento di tristezza e di depressione provocato da una visione che è fuori dalla realtà. In quei momenti, ciò che provoca la depressione o l’esaltazione sono i fabbricanti di parole. Io viaggio molto all’estero e vi assicuro che le persone rimangono sconvolte dalla nostra depressione, non se ne capacitano. Dicono: «Ma noi, noi prenderemmo al volo la condizione di vita dei francesi, la prenderemmo al volo!»
T. T. : Per qualcuno che ha percorso in lungo e in largo molti Paesi, in Francia c’è un pessimismo, un compiacimento eccessivo nell’osservare il declino, che mi spiego con il fatto che nel XX secolo la Francia è passata dallo status di potenza mondiale a quello di potenza di second’ordine. Ciò condiziona in parte questo cattivo umore, al giorno d’oggi parte integrante dell’anima francese.
Ciononostante, gli attentati e il ritorno della tragicità della Storia sul nostro suolo hanno minato il quotidiano di ciascuno di noi. La Francia potrebbe essere una nazione resiliente?
T. T. : Io vedo paradossalmente qualcosa di positivo in questa situazione. Certo, non ci si può rallegrare dell’esistenza di queste vittime in Francia, ma è salutare prendere coscienza della dimensione tragica della Storia, del fatto che la violenza non è stata eliminata dalla condizione umana perché in Europa gli Stati non sono più in guerra gli uni contro gli altri.
B. C. : La reazione agli attentati è stata magnifica a Parigi e vergognosa a Nizza. I parigini e i francesi si sono uniti nella solidarietà per lanciare il messaggio: «Noi non ci sottometteremo mai, ma non ci vendicheremo. Non ci lasciamo trascinare nella spirale della violenza». Io ero a Monaco, la sera del Bataclan. L’indomani, nelle strade, ho visto manifestanti del Pegida che non aspettavano che un incidente per scatenare un tumulto. A Nizza, quando le famiglie musulmane si sono volute recare sul luogo del massacro per commemorare le vittime, sono state aggredite al grido di: «Ritornate a casa vostra, sporchi arabi». Ora, sono a casa loro, perché sono francesi.
Per contro, non comprendo il movimento di lotta contro l’islamofobia, che mette sotto processo coloro che hanno paura dell’Islam e non gli assassini che provocano quella paura. Per evitare le reazioni razziste e opporsi ai terroristi, bisogna incontrarsi e parlare. Più ci si incontra, meno ci sono pregiudizi.