Il dottor Nicolaes Tulp, stimato anatomista della confraternita dei chirurghi di Amsterdam, agli inizi del XVII secolo, è ritratto da Rembrandt nel mostrare ai colleghi i tendini del cadavere di un uomo giustiziato che consentono la flessione della mano, opportunamente simulata dal dottore, nello stesso tempo, con la propria mano libera. (Scopri di più su: DoppioZero.com)
È probabile che il cadavere sarà sezionato ancora per studiarne altre parti e organi. La scena si ripeterà negli anni e nei secoli successivi e non solo sui tavoli di medicina legale, per le autopsie e le dissezioni. Il corpo umano sarà suddiviso in diversi apparati e funzioni, che saranno studiati separatamente e diventeranno appannaggio di differenti branche della medicina e dipartimenti della biologia. In più, dopo quel ritratto del 1632, esattamente cinque anni dopo, Cartesio, nel Discorso sul metodo, separerà dal corpo la mente o “cosa pensante”, destinata a diventare il campo autonomo della psicologia, così come i comportamenti criminali di quell’uomo, finito a sua insaputa sul tavolo autoptico del dottor Tulp e sacrificato ai progressi della chirurgia, saranno l’oggetto di una nuova scienza, la sociologia, e poi, ancora, di una sua specializzazione, la criminologia, che già ai suoi esordi, per bocca di uno suoi padri fondatori, Émile Durkheim, oserà dichiarare normale un certo tasso di reati in una società.

Questa compartimentazione e dispersione dell’umano in tante discipline, che è giunta fino ai giorni nostri, non è avvenuta a caso, ci ricorda Edgar Morin, nel suo ultimo libro, appena edito in Italia (Sette lezioni sul pensiero globale, Raffaello Cortina Editore 2016), ma ha seguito i principi fondamentali del paradigma dominante che, proprio a partire dal secolo della rivoluzione scientifica moderna, hanno guidato la conoscenza e governato il pensiero, vale a dire la costituzione di teorie e la produzione di discorsi. È il paradigma della riduzione, dell’esclusione e della disgiunzione, che ha prescritto di ridurre il complesso al semplice, il globale all’elementare, il tutto alle parti, l’organizzazione all’ordine, la qualità alla quantità, il multidimensionale al formale e ha ritagliato i fenomeni in oggetti decontestualizzati e separati dallo stesso soggetto conoscente. Ma l’imperialismo di questo paradigma comincia a logorarsi. Anzi, a detta del sociologo e filosofo francese, “siamo in un’epoca che ha bisogno di un cambiamento di paradigma, e ciò accade molto raramente nella storia”. Il passaggio che Morin si auspica e intende agevolare al paradigma della complessità, a cominciare dalla sua inseminazione nei sistemi educativi ancora refrattari a recepirlo, richiede innanzitutto che si faccia scienza con coscienza, che ci si renda consapevoli dell’esposizione permanente all’errore e all’illusione della nostra conoscenza, la quale, come egli rammenta nelle belle pagine finali del libro, è sempre un processo di traduzione e di ricostruzione, mai un mero rispecchiamento delle cose, che dipende da un’organizzazione teorica dove entrano in gioco non solo i fattori cognitivi, ma fattori meta-cognitivi (i paradigmi, appunto) e fattori infra-cognitivi (i bisogni, le aspirazioni), inscindibili dal soggetto che teorizza e dal suo contesto storico, sociale, culturale.

Le Sette lezioni sul pensiero globale intendono indicare le piste per rimediare al risultato paradossale a cui hanno condotto la conoscenza disgiuntiva e le specializzazione del sapere chiuse e autoreferenziali: l’assenza nei programmi di insegnamento della condizione umana, che può essere conosciuta solo se pensata nella sua complessità e globalità, cioè se si “tessono insieme” le dimensioni fisica, biologica, mentale, sociale, storica dell’uomo; se si inserisce la specie umana nell’Universo; la storia umana nell’evoluzione della specie; l’individuo nella società; le società nella mondializzazione. La consapevolezza della complessità umana non è fine a se stessa secondo Morin.

Corrisponde a un bisogno del nostro tempo segnato dalla globalizzazione e può veicolare e corroborare la comprensione interumana e interculturale, la concezione fallibilista della conoscenza, la coscienza della dipendenza della nostra indipendenza dalla biosfera, il sentimento di appartenenza a una comunità di destino ormai “terrestre” e non solo regionale o nazionale, in definitiva: un nuovo umanesimo planetario.

Al gesto emblematico del dottor Tulp che disseziona, riducendo il tutto ai suoi elementi di base, bisogna, per converso, contrapporre la mossa che ristabilisce il circuito tra il tutto e le parti, collegando le parti al tutto e il tutto alle parti. E considerando le proprietà emergenti del tutto, che non si riscontrano nelle sue parti, e, nel contempo, constatando come il tutto possa essere di meno e un limite per le parti. Per esempio, nel rapporto individuo-società, questo significa che “attraverso le interazioni si è costituito un tutto sociale, il quale ha prodotto un linguaggio, ha formato una cultura e poi, dopo le prime società arcaiche che avevano un’organizzazione ma non uno Stato, sono comparsi degli Stati, delle leggi ecc. Queste qualità emergenti retroagiscono sugli individui perché danno la capacità di leggere, di scrivere, di contare, grazie alla cultura, al linguaggio; attraverso l’educazione danno l’insieme delle conoscenze minimali necessarie per muoversi nella società. Peraltro, il tutto ingloba delle potenzialità proprie alle parti, che considera come devianti o delinquenti”.

Queste avvertenze metodologiche sono la sintesi del lavoro, quasi epico per la sua monumentalità, compiuto da Morin nell’arco di poco meno di trent’anni, dal 1977 al 2004, con la stesura de Il Metodo (voll. 1-6, Raffaello Cortina Editore), che in questo libro confluiscono nell’illustrazione aggiornata dei capisaldi della sua “antropologia complessa”, arricchita stavolta da un intenso capitolo sugli scenari del futuro, rispetto al quale Morin raccomanda di porsi senza le rassicurazioni predittive dell’ideologia o della filosofia della storia del passato, ma nemmeno con il disincanto o il catastrofismo. Piuttosto con il senso dell’avventura umana, aperta sempre al rischio e all’opportunità, che appunto il pensiero globale e complesso ci sa restituire, insieme con la certezza “incerta” di trovarci in un momento di metamorfosi dell’umano, che tocca a noi trasformare da improbabile in possibile.

Così sin dalle prime pagine del libro, Morin ripercorre i suoi maggiori contributi a una concezione complessa della condizione umana, a cominciare dalla nozione di “trinità umana”, in base alla quale l’umano è definito all’interno del rapporto ricorsivo tra specie, individuo e società, dove un termine è sempre contestualmente prodotto e produttore dell’altro. L’individuo umano è a sua volta caratterizzato dalla dialogica tra una tendenza egocentrica e un bisogno di socialità, che per Morin sopravvive anche nella situazione dell’iper-individualismo moderno, e soprattutto dalla compenetrazione permanente e indissolubile di due polarità: la razionalità (homo sapiens) e il delirio (homo demens), la ricerca dell’utilità (faber) e l’immaginazione (mythologicus), il calcolo (economicus) e il gioco (ludens), la prosa e la poesia. Ma quest’uomo che, al tempo stesso, è radicato nell’animalità e il risultato di uno “scarto” rispetto alle sue origini animali, grazie allo sviluppo cerebrale e culturale che lo ha portato a formare società arcaiche e storiche sui generis a confronto con quelle dei primati, è anche, nella sua costituzione fisico-chimica, il deposito della storia dell’Universo, delle cui origini porta in parte la tracciabilità. La nostra evoluzione biologica è un aspetto dell’evoluzione cosmica.

Per Morin, siamo inglobati in un Universo da comprendere anch’esso nella sua complessità e cioè nel dialogo tra ordine, disordine e organizzazione che lo costituisce, un Universo che disintegrandosi si organizza, secondo una trama ancora in parte misteriosa che, già prima della scoperta del secondo principio della termodinamica, forse era stata intuita da quello straordinario filosofo della natura del primo Ottocento che fu Leopardi, quando, nel Dialogo della Natura e di un Islandese, fa parlare la prima di “un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo”.

Ma l’armamentario concettuale del pensiero globale e complesso si rivela ancora più fruttuoso e indispensabile quando si misura con l’ultima tappa dell’avventura storica in cui l’umanità si trova imbarcata: la mondializzazione. Si tratta dell’“era planetaria” che ha avuto inizio con la scoperta delle Americhe e con la dominazione e lo sfruttamento di molte parti del mondo da parte delle nazioni europee, approdata e accelerata dalla globalizzazione degli anni Novanta con il crollo del socialismo reale nell’Est Europa e con l’apertura al capitalismo della Cina, che ha immesso l’umanità nell’avventura planetaria in cui tutto ciò che è globale interviene sul locale, tutto ciò che è locale interviene sul globale, attraverso interdipendenze, interferenze, inter-retroazioni.

I vettori principali di questa globalizzazione (tecnica, scienza, economia, profitto) restano però incontrollati e hanno effetti ambivalenti, come attestano le crisi economica, ecologica, demografica, sociale, nelle quali siamo avviluppati e che conducono a una probabile catastrofe, se non sono corrette da riforme e vie rigeneratrici sul piano sociale, educativo, etico, che sappiano contemperare mondializzazione e localizzazione, crescita e decrescita, unità e diversità culturale. Sono le vie che potranno favorire non una rivoluzione, ma una metamorfosi dell’umano che oggi appare improbabile ma non impossibile, nella direzione di una società-mondo solidale ovvero di un’umanità nuova capace di riconoscersi come umanità e di riconoscere la Terra-Patria come casa comune dell’umanità. Anche in questo libro, infatti, rimane ferma la convinzione in Morin che, nello stato attuale dell’umanità e del mondo, “siamo nella preistoria della mente umana e non alla sua fine: c’è ancora da scoprire, da creare. Siamo ancora nell’età barbara delle relazioni fra gli uomini, fra i popoli, fra le nazioni”. In altri termini, si tratta di accompagnare e controllare la metamorfosi biologica, informatica e tecnica con una metamorfosi etica, culturale e sociale, per non lasciare la prima in balìa solo delle forze della tecno-scienza e del capitalismo, come sta accadendo. Tanto più che questa metamorfosi ci sta proiettando su due scenari non lontanissimi, gravidi di implicazioni morali e sociali: la possibilità di allungare la vita con le biotecnologie e il ricorso alla robotizzazione nei processi lavorativi e nella vita quotidiana. Se, sul finire degli anni Novanta, un altro grande sociologo del Novecento, Niklas Luhmann, guardando all’urbanizzazione massiccia e al degrado delle periferie, dei ghetti, delle favele, vedeva sinistramente profilarsi una società strutturalmente regolata sulla distinzione tra “inclusi” ed “esclusi”, tra persone emancipate, da un lato, e semplici individui in lotta solo per la loro sussistenza, dall’altro lato, Edgar Morin mette in guardia, in questo libro, su un’altra possibile distinzione e disuguaglianza che appare la declinazione della prima, conseguente allo sviluppo delle tecniche biologiche: quella fra i demortalizzati e i mortali, che aggraverebbe la disparità fra potenti e ricchi demortalizzati, intenti ad allungare il più possibile la loro vita al di là della media naturale, da una parte, e i “comuni mortali”, dall’altra parte.

Entrati nel XXI secolo orfani dell’idea e della fiducia nel progresso, per evitare allora la prospettiva di una barbarie civilizzata, secondo Morin, rimane la possibilità di confidare in un futuro che incuba comunque il nuovo e i germi positivi, che le categorie del pensiero globale e complesso riescono a leggere meglio, ma anche in un futuro che custodisce sempre l’inatteso e l’imprevisto, capaci di invertire la tendenza più negativa o catastrofica, come ci ha insegnato più volte la storia, come quando, per esempio, la Wehrmacht tedesca era arrivata alle porte di Mosca nell’autunno del 1941 e Hitler era sul punto di dominare sull’intera Europa per un tempo indefinito, ma in tre giorni tutto si capovolse. Quando otto anni fa, in un bel libro-intervista (E. Morin, Mon chemin, Fayard 2008), Diéjanne Kareh Tareg chiedeva a Morin da dove potesse uscire il salvatore dell’umanità, in grado di distoglierla dalla sua corsa verso l’abisso, Morin rispondeva che sarebbe uscito dalla nostra crisi, perché le crisi favoriscono forze regressive o letali, ma anche l’immaginazione creatrice di soluzioni che permettono di superarla, modificando il sistema sociale. Oggi, nelle Sette lezioni sul pensiero globale, Morin risponde: dall’improbabile, dall’inatteso, che ci può aprire un futuro migliore, rispetto a un presente ancora troppo carico di inquietanti ambiguità.

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