Allargare la distanza, aumentare la comprensione, con un profondo rispetto per la sofferenza degli altri. Così si esprime, commentando il proprio lavoro, Paolo Pellegrin, fotografo che con il giornalista Scott Anderson ha realizzato il reportage de “la Repubblica” e del “New York Times Magazine”, uscito il 14 agosto 2016, col titolo Terre spezzate. (Scopri di più su:
DoppioZero.com)
Le indicazioni di Pellegrin si mostrano difficili da mettere in pratica. Soprattutto in un tempo come il nostro, quando siamo particolarmente impegnati a restringere la distanza al nostro mondo particolare; a praticare l’indifferenza e non certo la comprensione; a esprimere forme di narcisismo diffuso, concentrati come siamo principalmente se non esclusivamente su noi stessi. Operiamo in molti campi della nostra esperienza una semplificazione eccessiva, riduciamo tutto a un solo mondo, il nostro particolare, realizzando così una reductio ad unum, una riduzione a forme e modi unici in ogni campo: il contrario del pluralismo. Ma anche il contrario del movimento che contraddistingue l’evoluzione naturale e quella culturale. La seconda con tempi storici, più veloci della prima, che si muove in tempi biologici.
Negare il pluralismo culturale e opporsi ad esso, come stiamo facendo nel tempo in cui muoversi e assecondare il movimento coevolvendo con esso sarebbe più che mai urgente e necessario, vuol dire volersi fermare, interrompere il cammino, che significa negare la vita stessa. Per una specie nomade, poi, la questione diventa paradossale e patologica. Tutto questo è documentato in modo chiaro ed evidente da Michele Calzolaio e Telmo Pievani in Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così.
Mai come in questo tempo scopriamo che non abbiamo radici, quelle le hanno gli alberi: noi abbiamo i piedi e siamo quello che siamo, dal pensiero alle altre caratteristiche, perché ci muoviamo. Muoversi vuol dire sperimentare le differenze e riconoscere che la differenza è la vita stessa. La differenza mette di fronte alla pluralità. Negarla è patologico, individualmente, culturalmente, socialmente. Camminare nella vita, nella conoscenza e nel mondo, vuol dire certamente mettere in discussione l’equilibrio precedente e rischiare di cadere ad ogni passo; ma quel rischio che ci pone di fronte alla discontinuità è allo stesso tempo all’origine di ogni possibilità. John Donne nel 1609 scrisse: “Vivere in un solo mondo è prigionia”.
Camminare non è una decisione ma una necessità evolutiva. David Grossman, ai giorni nostri, scrive: “c’è un momento in cui si compie un piccolo passo, si devia di un millimetro dalla solita via, a quel punto si è costretti a posare anche un secondo piede e d’un tratto si finisce su un percorso sconosciuto”. Il secondo piede sono gli altri, diversi da noi e a noi irriducibili, ma costituiscono la metà del nostro cielo; senza di loro abitiamo sotto una cappa soffocante. Sul cammino, Nunzio Galantino ha scritto un breve, aureo testo su “Il Sole 24 ore” del 14 agosto 2016. “Anche se il cammino è tortuoso, ventoso, solitario, pericoloso, sbagliato, certamente non è statico, offre ripetute possibilità di cambiamento, di scelte successive. È il camminare dell’interiorità: condizione di apertura, di scoperta, di caduta e di solitudine; condizione che rende vivi e che trasforma.
Atto che permette di lasciare la propria orma: ‘il camminare presuppone che ad ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi’ (Italo Calvino). Il cammino ha il carattere di infinito e di eterno, apre al mistero. Una storia narra di un sasso lungo una strada. La persona distratta inciampa sul sasso; quella violenta lo usa come arma contro altri. L’imprenditore lo usa per costruire, il contadino stanco lo usa come sgabello.
I bambini giocano con il sasso trasformandolo, con la fantasia, in pallone. Davide uccide Golia, ma Michelangelo usa il sasso per farne una delle sculture più belle. La morale è che il sasso non fa la differenza, non esiste sasso nel proprio cammino che non possa essere sfruttato per la propria crescita. Il cammino dà la possibilità di trovare tanti sassi. Sta a noi raccoglierli e trasformarli per riscattare la nostra vita dalla irrilevanza e renderla significativa”. Non camminare, stare fermi significa, quindi, non conoscere non solo gli altri ma neppure se stessi, non rischiare ma anche non emanciparsi.
Oggi tendiamo a vivere nel pensiero unico, che si riduce solo a se stesso e alla propria autoreferenzialità, su un sostrato di forma economica, quella del capitalismo che, come mostra efficacemente John Plender in La verità sul capitalismo. Denaro, morale, mercato, sembra non incontrare concrete alternative.
Nella maggior parte dei casi si negano le differenze e si predilige l’omologazione, e ciò costituisce il principale pericolo che incombe sulla nostra stessa evoluzione di specie. Esiste infatti una forte correlazione tra la scarsa valorizzazione del pluralismo culturale e delle sue forme molteplici e la propensione a negare alternative al modello di sviluppo economico dominante.
Il forte cambiamento in corso a livello ecologico, di cui ci siamo occupati nel contributo sulla
vivibilità per Doppiozero, ha oggi un simbolo evidente che, anche per un monolitismo culturale strettamente connesso al nostro modello di sviluppo dominante, ci ostiniamo a non voler vedere. Quel simbolo è l’anidride carbonica CO2, e volendo cercare un esempio sulla sua azione, oggi è come il preoccupante odore di gas prima dell’esplosione. L’osservatorio di Mauna Loa, Hawaii, che misura l’anidride carbonica atmosferica, il 25 luglio 2016 ha rilevato 404.02 parti per milione. Da oltre 20 milioni di anni questo valore non era così alto. In gran parte questa concentrazione di anidride carbonica è dovuta alle attività umane su scala planetaria. Siamo nell’era dominata dall’impatto umano, l’Antropocene, e il fattore di più elevata criticità è che la maggioranza degli esseri umani e delle nostre società mostra di non tenere conto di queste informazioni così banali e fondamentali.
Il riconoscimento dell’unitas multiplex che ci potrebbe portare a una coscienza di organismi tra organismi di un sistema vivente, richiederebbe l’elaborazione della “crisi della presenza”, in questo tempo di transizione da padroni del pianeta a parte del tutto, assumendo finalmente che prima di essere europei, asiatici, africani, di questa o di quella religione, siamo parte del sistema ecologico globale. Si evidenzia a questo livello il legame tra il monolitismo culturale e il pensiero catturato da un modello unico di sviluppo, da un lato, e la crisi ecologica dall’altro.
Orientamenti e vie culturali diverse sono condizione indispensabile per la tutela e la valorizzazione della biodiversità. Percepire e vivere il proprio ruolo come relativo da parte degli umani, è una questione cruciale oggi, sia a livello culturale che a livello ecologico. Pluralismo culturale e pluralismo dei modelli di tutela e uso appropriato delle risorse sono strettamente interconnessi. Detto in altro modo la combinazione tra l’analfabetismo ecologico e l’analfabetismo riguardo alle diversità culturali è forse il problema principale del nostro tempo.
Ha scritto Antonio Pappano, il Direttore Musicale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia su “Il Sole 24 ore” del 14 agosto 2016: “Appartengo a tre paesi e a nessuno, perché quando si viaggia molto e si lavora in posti diversi si diventa un po’ camaleonti; amo il cosmopolitismo ma sono sempre attento a trovare un suono particolare per ogni orchestra che dirigo. È una questione molto delicata per un direttore, perché si rischia di avere un suono unico, stereotipato, che non riflette il proprio carattere, oggi le orchestre sono composte da musicisti di tante nazionalità ma si rischia di avere un suono uguale, omogeneo, uno stile standardizzato, abbastanza noioso”.
Immersi nella civiltà planetaria e non per scelta, rinculiamo per paura nelle nostre piccole patrie. Piccola patria è il titolo di un film di Alessandro Rossetto del 2013, in cui la chiusura in un micromondo esaurisce orientamenti, scelte e progetti di vita. Del mondo e delle sue dinamiche quel piccolo mondo assorbe le cose più problematiche e tutto il resto è filtrato dalla ristrettezza culturale e dagli orientamenti limitati.
È come se di fronte al pluralismo delle culture con cui l’appartenenza planetaria ci costringe a fare i conti, ci fossimo girati dall’altra parte per non voler vedere, perdendo per ora le opportunità che potrebbero derivarcene. Siamo tornati per certi aspetti daccapo, all’osservazione solo di noi stessi. L’effetto è problematico: nel momento in cui viviamo nel pluralismo senza alternativa, tendiamo a negarlo senza tregua. Uno sguardo dall’esterno ci fa difetto e cerchiamo in tutti modi di ridurre il mondo alla sola nostra dimensione. Come l’Adriano di Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, osserviamo noi stessi in stato di costrizione:
- “Quanto all’osservazione di me stesso, mi ci costringo, non foss’altro che per entrare a far parte di questo individuo in compagnia del quale mi toccherà vivere fino all’ultimo giorno; ma una familiarità che dura da quasi sessant’anni comporta ancora parecchie probabilità di errore. Nel profondo, la mia conoscenza di me stesso è oscura; interiore, inespressa, segreta come una complicità”.
Ecco, senza gli sguardi degli altri tendiamo a divenire complici di noi stessi. Pretendiamo di foggiarci da soli, alla bene e meglio, un’idea del nostro destino.
Se è mai esistito un tempo in cui potevamo provare a definirci da soli, questo non è certo quel tempo. Non è facile definire il contrario di pluralismo, ma è ciò a cui tendiamo, paradossalmente. Edgar Morin, qualche anno fa, aveva sollecitato ad assumere come riferimento l’unitas multiplex capace di rappresentare sia l’unicità del soggetto che la pluralità delle possibili espressioni dell’umano e del vivente. All’inizio sembrava un’utopia e, come tale, poteva essere a rischio di fallimento. A ben vedere però non si tratta di un’utopia se di fatto la rete ha messo in connessione ogni angolo del pianeta su cui viviamo. Siamo noi che resistiamo a riconoscere il pluralismo culturale che, di fatto, è già la realtà che stiamo vivendo, pur se per diverse ragioni non riusciamo a valorizzarne le possibilità. Eppure, come abbiamo mostrato su Doppiozero, nel contributo
Ragion poetica, ogni momento della nostra vita sembra attraversato dalla possibilità e dall'immaginazione che ce la rappresenta.
Il rimorso, il rimpianto, la speranza e la paura sono stati d'animo che nascono proprio dalla consapevolezza del possibile, di cose che sono andate in un modo quando avrebbero potuto andare in un altro modo, di cose che potrebbero accadere e la cui semplice possibilità produce degli effetti, da una notte inquieta per brutti pensieri all’andamento dei mercati.
Insomma, una caratteristica essenziale della vita reale è la consapevolezza che ciò che accade in un modo avrebbe potuto accadere altrimenti, e che quello che abbiamo fatto avrebbe potuto essere fatto in un altro modo. Il monolitismo culturale si consegna alla certezza che non vi siano alternative al nostro punto di vista e al nostro modo di fare, e così l’alone delle possibilità e i margini di approssimazione e ibridazione si contraggono.
Ad agire nel nostro presente è una circolarità che per ora mostra tutte le sue perversioni. Quella circolarità ricomprende il monolitismo culturale e gli ostacoli affettivi e cognitivi al cambiamento, con la conseguente affermazione della forza dell’abitudine. Detta così sembrerebbe una trappola ineluttabile. Eppure noi umani siamo capaci di creare quello che prima non c’era.
Perché se abbiamo una mente incarnata e situata in una cultura, allo stesso tempo quella mente incarnata e situata è relazionale ed estesa agli altri e, soprattutto, è emergente, cioè non è fissa e non è data una volta per tutte. E allora il pluralismo culturale e la sua azione per la creazione di una coscienza ecologica sono possibili?
Non si tratta di perseguire utopie vuote e fughe dalla realtà quando si parla di pluralismo culturale e interconnessioni con lo sviluppo di una coscienza ecologica, ma di saper affrontare il conflitto che le differenze richiedono di elaborare. Il pluralismo culturale ci offre, in fondo, l’opportunità di esplorare possibili alternative entro lo spazio che il mondo ci concede.