Secondo il Trattato istitutivo, l’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, anche grazie all’affermarsi di un’economia sociale fortemente competitiva. Tale formula, in estrema sintesi, rimette in via principale lo sviluppo economico al funzionamento dei meccanismi di mercato, alimentati dalla razionalità dello scambio, strumentale al profitto. (Scopri di più su:
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Gli effetti delle dinamiche competitive devono però essere mitigati da interventi pubblici a tutela dei diritti sociali di coloro che restano marginalizzati dal libero gioco delle relazioni economiche. Si pensi, ad esempio, alle prestazioni rese per assicurare il diritto all’abitazione, all’istruzione, alla salute. In questo modello, Stato e mercato operano separatamente: il secondo fisiologicamente genera disuguaglianze, di cui dovrebbe occuparsi il primo, grazie alla funzione redistributiva. Nel diritto europeo, quindi, l’economia deve essere conformata al sociale dai pubblici poteri, chiamati a riparare alle disparità create dal funzionamento del mercato.
Come può l’economia essere sociale e solidale?
Diversa è invece l’Economia sociale e solidale (ESS), priva di alcuna menzione o riconoscimento nei Trattati europei, affermatasi in Francia e in alcuni paesi dell’America latina.
Questa economia diventa sociale perché capace di esprimere, in positivo, il divenire delle relazioni tra gli individui, i quali concludono transazioni governate dal paradigma della reciprocità, nel senso che un soggetto agisce a favore di un altro non per la pretesa di una ricompensa ma per l’aspettativa che anche un altro soggetto in futuro agisca a suo favore, direttamente, o indirettamente; questo sembra poter accadere spontaneamente quando le persone agiscono a favore dello stesso interesse generale – recte: il “Comune” –.
È un’economia della società, nel senso che si fonda sulle relazioni sociali tenute insieme dai doveri di solidarietà: è come se gli individui (soggetti) legati da un interesse generale (oggetto) riuscissero a riemergere in una dimensione anche soggettivamente pubblicistica, capace di andare oltre i diritti e gli interessi dei singoli (se ne veda la definizione nel Dizionario dell’altra economia a cura di J.L. Laville e A.D. Cattani). Questo processo di consolidamento della società civile in un polo sostanzialmente pubblicistico intende condurre al cambiamento sociale attraverso l’innovazione delle pratiche con cui si realizza la socialità. Si respinge dunque l’idea di voler affrontare la nuova “questione sociale” attraverso strumenti rimediali, cioè meramente riparatori.
L’ESS, pertanto, non si presta ad essere ridotta al c.d. terzo settore, né tantomeno può essere definita in chiave unicamente soggettiva, cioè limitandosi a ricavarne i confini dagli statuti dei soggetti, quali associazioni fondazioni o cooperative che almeno formalmente non operano per fini di lucro, sebbene spesso nella realtà sembrino essersi ben adattati agli schemi d’azione tipici degli attori dell’economia di mercato.
In definitiva, l’ESS funziona in modo tale da risultare perfetta per la realizzazione dell’interesse generale, ovvero del “Comune”.
Interesse generale e paradigma della reciprocità
L’interesse generale della comunità, nella parte in cui corrisponde alla tutela di ciò che la dottrina economica riconduce al “Comune”, sembra capace di non contrapporre più l’interesse generale di tutti alla protezione dei diritti fondamentali dell’individuo, configurandosi finalmente in un’accezione positiva e non più circoscritta alla dimensione di limite rispetto ai diritti dei singoli. Così concepito, l’interesse generale consente la tutela di diritti fondamentali calati in una dimensione plurale e di reciproca connessione, in un’accezione molto più pregnante rispetto all’estensione dell’interesse collettivo considerato come sommatoria di interessi individuali, comunque circoscritti ad un gruppo.
L’assunto trova riscontro nelle emergenti esigenze di conservazione e accessibilità ai beni giuridici che consentono la soddisfazione di interessi generali, si tratti del paesaggio, dello sgorgare delle sorgenti, di uno spazio verde urbano.
E infatti, nell’ottica della conservazione dei beni destinati a soddisfare bisogni essenziali dell’uomo, la tutela del diritto di ciascuno implica la tutela dei diritti di tutti, ovunque si trovino, anche con riferimento all’uso futuro, sia perché l’interesse generale – calato in una dimensione universalistica – non può conoscere limitazioni territoriali o correlate all’appartenenza ad un gruppo, sia perché la fruizione attuale del bene non deve impedire l’accesso al medesimo bene di chi verrà dopo. Per altro verso, l’accesso di ciascuno al godimento del bene non esclude l’accesso dell’altro grazie all’ontologico carattere della non escludibilità del consumo, capace di generare condizioni favorevoli allo sviluppo di relazioni collaborative, a prescindere da prassi ed usi ripetutisi nel tempo.
Resta, tuttavia, aperto il problema di come disciplinare tale accesso nel rispetto della scarsità del bene, rinvenendo moduli giuridici idonei a valorizzare le relazioni di reciprocità che, come suggerisce la scienza economica, sembrano potersi instaurare tra gli utilizzatori in modo più frequente di quanto usualmente ritenuto.
La gestione comune dell’interesse generale
Come emerge dal primo paragrafo, l’ESS incorpora il paradigma della democrazia nel senso etimologico di governo del popolo, in quanto, al contrario del modello di sviluppo for profit che relega consumatori e clienti a ruolo di meri destinatari esterni delle azioni poste in essere dalle corporations, l’ESS mira al coinvolgimento dei beneficiari dell’attività economica svolta (quando utenti, quando lavoratori), i quali sono chiamati ad originare e gestire insieme, dall’interno, il farsi, in chiave propositiva e attiva, della decisione che li riguarderà.
In quest’ottica, si deve superare la dicotomia pubblico-privato, andando oltre la contrapposizione tra pubblica amministrazione e cittadini, rinvenendo moduli di integrazione. La sfida è coinvolgere i privati nella gestione degli interessi generali, che a priori dovrebbero essere interessi propri dello Stato collettività e dunque anche della pubblica amministrazione. Gli individui, tutti portatori dell’interesse generale in modo indifferenziato, vengono così resi parte della progettazione dell’intervento riguardante detto interesse.
L’ESS, pur necessitando ancora di una maggiore attenzione da parte del diritto per la ricostruzione delle sue regole, può quindi rappresentare la risposta al quesito posto da Elinor Ostrom su come un gruppo di attori può organizzare se stesso volontariamente per dare un esito positivo ai suoi sforzi.
Con riferimento ai servizi pubblici essenziali, quali, ad esempio, l’erogazione dell’acqua o la raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani, volti a soddisfare l’interesse generale, l’amministrazione condivisa potrebbe ben prestarsi alle richiamate esigenze di promozione del “Comune”, attraverso il coinvolgimento da parte dei gestori, aventi forma di organismi di diritto pubblico, delle comunità di lavoratori e utenti (come sancito già dall’art. 43 Cost.) nelle scelte di gestione e non solo nell’esecuzione dell’attività quali, esemplificativamente, le modalità di consumo o la differenziazione del rifiuto.
Infatti, la facoltà di godimento del “Comune” dovrebbe comprendere la gestione comune prima ancora che l’accesso alla fruizione, a ribadire che già questa fase prodromica sia espressione della facoltà di godimento. Ne consegue che occorrerebbe valutare l’estensione del diritto fondamentale di accesso all’utilità del bene pure a questa fase di “costruzione” della gestione, logicamente e operativamente antecedente.
Seppure l’effetto si possa conseguire spontaneamente, rimettendosi agli spazi ormai conquistati dalla società civile anche grazie alla costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà, ritengo che il fenomeno potrebbe essere accelerato se, nei vari comparti, ottenesse un riconoscimento normativo. Il ruolo dell’autonomia delle persone, a mio avviso, non sarebbe rinnegato da una legislazione di promozione della collaborazione, visto che i mutamenti in nuce non sono destinati a stabilizzarsi repentinamente.
Si pensi al ruolo che possono avere i lavoratori e gli utenti di un ospedale o di un’Università se la legislazione li facesse collaborare nell’amministrazione, senza l’attribuzione di cariche amministrative o gestionali, come peraltro già accade per i lavoratori di questi settori, ma creando un polo di convergenza dell’interesse generale che li veda interagire come comunità nel proporre opzioni per il suo soddisfacimento.
Il “Comune” è sentire diffuso che accomuna le persone
È ormai possibile riscontrare come in disparati contesti geografici, si attuino “pratiche sociali” che attecchiscono ai margini dell’economia capitalistica, grazie al ripetersi di esperienze volte al riconoscimento, alla valorizzazione e alla tutela del “Comune”: dall’acqua all’ambiente agli spazi urbani. Interessante che tali fatti sociali sorgano spontaneamente in luoghi disparati, ma secondo moduli assimilabili, a conferma della presenza di trasversali interessi emergenti lasciati sprovvisti di effettiva tutela dalle autorità costituite.
Il “Comune” sembra emergere come un sentire diffuso che accomuna le persone per l’assoluta rilevanza, generalità e imprescindibilità degli interessi da proteggere, bisognosi di una tutela giuridica al momento solo formale e non effettiva. È un’esperienza intuitiva che si presenta come un riflesso fenomenologico, cioè una conseguenza cognitiva, prima ancora che giuridica o economica, derivante dal manifestarsi di una realtà.
La “capacità sociale” di comprensione e di intervento anticipa il diritto e quindi la scienza economica, essendo la regola intrinseca al farsi dell’economia.
Un simile modello si presta a determinare lo sviluppo, almeno in via complementare, di un’economia non capitalistica, bensì sociale e solidale. Esso può episodicamente diffondersi spontaneamente, ma potrà poi svilupparsi solo se rinverrà dei rodati e riconosciuti moduli decisionali, in grado di ripetersi e di conquistare cogenza. Dovrà, in altre parole, divenire capace di farsi norma giuridica.
Al giurista il compito di individuare gli assetti in cui possa manifestarsi la forma istituzionalizzata in grado di rappresentare la descritta evoluzione delle relazioni sociali.