Verso un nuovo immaginario della libertà: la generatività quale motore in grado di liberare, all'interno delle società mature, nuove energie psichiche capaci di dare vita ad una nuova stagione di crescita. (Scopri di più su:
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La natura antropologica della crisi
La disgregazione del modello socio-economico sorto nel corso degli anni '80 e affermatosi dopo la crisi del Muro di Berlino è ormai conclamata. La crisi finanziaria scoppiata cinque anni fa si è trasformata, dapprima, in crisi economica, poi in crisi occupazionale e in crisi sociale per arrivare a far traballare alcune democrazie.
Il sentimento diffuso è un misto tra sconcerto, rabbia, paura. Non si capisce quello che sta accadendo, non si riescono ad attribuire le responsabilità, non si riesce a prevedere il futuro. I nostri sistemi esperti sono in panne così che a prevalere sono sentimenti negativi, a loro volta forieri di nuovi problemi.
In un momento difficile come quello che stiamo attraversando, è facile limitarsi a maledire. Come se tutto fosse da buttare o come se il problema fosse semplicemente ritornare indietro a quando le cose "funzionavano" (o almeno così sembrava).
Ma, quanto più avanziamo nel mare ignoto della crisi, tanto più ci rendiamo conto, che la soluzione non è quella di far ripartire la macchina. La transizione in corso, per quanto difficile e incerta, è la via per arrivare a costruire un mondo nuovo. Auspicabilmente migliore di quello (molto problematico) che abbiamo lasciato. Per questo maledire non serve a nulla.
In realtà, se non si arriverà, un po’ per volta, a benedire questo tempo - cioè a coglierne anche gli elementi promettenti - non sarà possibile riattivare la crescita. E questo perché la crescita si fonda sempre su una certa capacità di attivazione delle energie psichiche personali.
Guardare alla crisi come opportunità significa, dunque, capire che a essere chiamate in causa sono la nostra stessa libertà, la nostra intelligenza, la nostra creatività, tutti aspetti che devono essere mobilitati per portarci oltre le profonde contraddizioni che hanno attraversato la stagione ormai alle nostre spalle, contraddizioni che sono poi all'origine di quanto sta accadendo. Proprio per questo, però, per benedire è necessario disporre di una comprensione delle cause profonde della sbandata che abbiamo preso, possiamo sperare in una uscita positiva e non regressiva.
Espansione e desiderio
Nella prima globalizzazione - quella che si è prodotta tra la caduta del Muro di Berlino e la grande crisi finanziaria del 2008 - i Paesi sviluppati hanno esportato lavoro e capitale in quelli emergenti, sfruttando la propria superiorità, economica, tecnologica, politica, culturale, coinvolgendo i paesi terzi nell'ordine economico capitalistico. Questo modello di sviluppo adottato negli ultimi decenni dalle democrazie occidentali, sul piano internazionale, non funziona più, proprio in ragione del suo successo, che ha portato ai mutati equilibri geo-economici, e di conseguenza politici.
Sul piano interno, una crescita basata sul consumo individualizzato, e a debito, non ha margini significativi di crescita ulteriore. Il modello deve, dunque, essere ripensato, in un quadro in cui molti paesi occidentali si trovano stretti tra esigenze antagoniste rispetto a diversi punti operativi: smaltire un debito e, nello stesso tempo, alimentare la crescita, mantenere un equilibrio finanziario e rilanciare l’occupazione.
Tuttavia, è importante sottolineare che il movimento espansivo non ha interessato solo il piano strutturale, ma ha pienamente investito anche quello soggettivo. Pensandosi come volontà di potenza, il cittadino del capitalismo tecno-nichilista ha imparato a "liberarsi" e a cercare di esprimere se stesso e la propria autenticità, nel rispetto delle norme formali e delle procedure tecniche di funzionamento. Come ha icasticamente osservato S. Zizek, la nostra è la prima che società si struttura attorno al comandamento superegoico del "godi", portando così a compimento un progetto annunciato nel lontano 1927 da Paul Mazur, esponente di punta di Wall Street, in un articolo per l'Harvard Business Review: "dobbiamo cambiare l’America da una cultura del bisogno a una cultura del desiderio. Le persone devono essere educate a desiderare, a volere nuove cose persino prima che le vecchie siano state completamente consumate...il desiderio deve sovrastare il bisogno". Un progetto che Berlusconi ha importato in Italia, con tutte le conseguenze che conosciamo.
Su queste basi, negli ultimi decenni, l'economia psichica emergente si è strutturata attorno al sistematico sfruttamento del desiderio individuale (per definizione mai esauribile) che, ridotto in godimento, è diventato, per così dire, produttivo. Nell’immaginario della libertà contemporanea, libero è colui che sa esprimere se stesso, sciolto dai condizionamenti esterni e dalle limitazioni imposte da una qualsivoglia autorità.
In effetti, negli ultimi due decenni il capitalismo tecno-nichilista ha sviluppato un immaginario della libertà che si radica nell’idea di apertura come esposizione ed esplorazione. La libertà non consta tanto di una volontà, di una decisione che costruisce una biografia unitaria e congruente, capace di imprimere una direzione di senso, quanto dell’essere aperti all'inatteso e alla sorpresa oppure del performare oltre ogni limite; ciò implica la disponibilità ad andare oltre se stessi e a non avere limiti, almeno nella parte di cui siamo coscienti. Come contemporanei, noi, più che "cercare" – secondo il vecchio modello soggettivistico – "troviamo". Tutto quello che possiamo fare è trovare, in un mondo che riconfigura di continuo il paniere delle alternative. In un mondo che cambia rapidamente, la libertà di scopo non si dà nella modalità tipica del passato, ossia quella del soggetto che predetermina i propri scopi e li persegue in modo convinto, mettendoci tutto se stesso, ma consiste piuttosto nell’essere sempre disponibile ad un eventuale nuovo scopo che nemmeno si conosce, ma che comunque ci disponiamo ad abbracciare.
Per essere liberi occorre, dunque, essere aperti, persino al di là della propria volontà e dei propri disegni: è necessario essere disponibili all’evento che mi viene incontro, mi sorprende e mi sovrasta. Io sono, dunque, tanto più libero quanto più non pongo limiti a priori a ciò che posso incontrare. In questo modo, ciò che si determina è un’espansione senza signoría, dove il motore non è più interiore ma esteriore: sono gli avvenimenti, gli incontri, le combinazioni che attraversiamo a segnare la nostra vita. A noi il compito di vederle, di coglierle, di goderne appieno.
Da questo punto di vista, l'economia psichica del mondo contemporaneo si configura in modo tale che, per la prima volta, invece della rimozione del desiderio, l'ordine sociale afferma l’ingiunzione a godere. Titolati ad una espansione senza limiti, vaghiamo alla ricerca di una realtà capace di "fare resistenza" e, in questo modo, di darci dimostrazione di esistere. Perché, come scrivono Benasayag e Schmidt là dove tutto è possibile, nulla esiste. Non a caso gli psicanalisti parlano di "clinica del vuoto" ad indicare la difficoltà dell'individuo contemporaneo a sostenere il desiderio come comando.
Seconda globalizzazione e collasso dell'economia psichica dissipativa
Il collasso finanziario avvenuto nell'autunno del 2008 mette fine alla stagione espansiva che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Bruscamente si passa dalla espansione alla contrazione.
Dal punto di vista del debito, l'interruzione avvenuta negli ultimi anni ha ormai definitivamente compromessa la fiducia necessaria a mantenere la dinamica espansiva. Qualunque soluzione alla fine si troverà, una cosa è certa: e cioè che non si potrà più far finta di nulla, come invece si è potuto fare in questi anni.
D'altro canto, i mutati equilibri economici e politici internazionali, di cui la crisi acutizza la consapevolezza, definiscono l’era di una "seconda globalizzazione". Pur conservando un notevole vantaggio, i paesi avanzati si dibattono in uno stato di difficoltà da cui stentano ad uscire. Sul versante dei paesi emergenti, resta da vedere la loro capacità di tenuta del ritmo di crescita che appare minacciata innanzitutto dall’instabilità politica derivante dall’aumento delle disuguaglianze all’interno di questi paesi: nella "seconda globalizzazione", la mera espansione non si potrà più assumere con un dato di fondo, dato che i processi saranno molto più contrattati. Oltre all'economia tornerà a contare la politica e a fianco della tecnica riacquisteranno peso il dialogo e la negoziazione.
Sul piano culturale, una contrazione destinata a durare diversi anni è destinata a incidere sui comportamenti diffusi.
Dal lato del consumo, si osserva che una quota, minoritaria ma significativa e crescente, di consumatori cerca il modo di delineare, rispetto al benessere e alla felicità individuali, una scala gerarchica diversa, in grado di interrompere la differenziazione più superficiale – sia essa quantitativa (elaborata a partire dall’intensità della soddisfazione provata nel consumo di certi beni) oppure qualitativa (capace di realizzare un piacere individuale, spirituale o fisico) – e di intrecciare la domanda di felicità individuale e di autenticità con un'offerta rispettosa di alcuni criteri valutativi (come la sostenibilità ambientale, l’equità e la giustizia sociale, l'attenzione agli aspetti relazionali). Le attitudini innovative che da tempo si vanno sviluppando dal lato delle pratiche di consumo sono un sintomo, certo ancora flebile e tuttavia significativo, dell'emergere di nuove domande sociali che lo stesso atto del consumare può contribuire a soddisfare; domande volte prima di tutto alla valorizzazione del contesto ambientale e sociale.
Dal lato delle imprese, si osserva che una buona parte del mondo imprenditoriale ha cominciato a comprendere la necessità di un riposizionamento nella direzione di un modello di impresa più attento alle dimensioni sociali e ambientali. Di recente, in un numero monografico, l'Harvard Business Review ha dato il suo autorevole sigillo a queste nuove sensibilità indicando come parametri che qualificano quella che viene definita la "buona azienda" aspetti quali la centralità delle finalità e dei valori, l'orientamento al medio-lungo periodo, secondo l'idea di sviluppo sostenibile, le motivazioni intrinseche, l'attenzione per la dimensione sociale, la valorizzazione delle risorse umane.
Tutto ciò depone in favore dell'idea che, dentro le spire mortali della crisi, sia nascosto un potenziale positivo ancora tutto da valorizzare: un potenziale che si può sprigionare solo a partire da un diverso 'desiderio'.
Per una economia psichica generativa
Ciò significa che non si uscirà dalla crisi tornando indietro, ma andando avanti. Il problema non è tornare al settembre 2008, facendo ripartire la macchina. Oltre a non essere possibile, non è nemmeno desiderabile.
Si tratta, in realtà, di fare una traversata. A partire dalla lezione che la crisi intende insegnarci: apparentemente liberatoria, la condizione di libertà diffusa di cui abbiamo goduto e che abbiamo pensato come ab-soluta ha le sue trappole sia a livello soggettivo che collettivo. La crisi, in fondo, ci parla di questo.
Lungo il percorso che occorrerà tracciare negli anni che ci aspettano si tratterà di costruire nuovi equilibri economico-politici e di trovare nuove forme istituzionali. Ma tutto ciò sarà possibile solo a partire da un diverso immaginario della libertà e, per questa via, dal radicarsi di una nuova economia psichica. La crisi strutturale dell'espansione preme, infatti, per una ristrutturazione del piano culturale e simbolico. Per dirla con Weber, ci serve un nuovo spirito, dato che l'immaginario della libertà forgiato dalla logica espansiva, materialista e individualista, si rivela ormai non solo deludente ma semplicemente insostenibile. Dallo stato di crisi a cui è giunta, questa idea di libertà non può che evolvere verso qualcosa d’altro, pena rinunciare a esistere. Il punto è che la decisione rispetto alla direzione da prendere costituisce, a sua volta, un atto di libertà: per questo, la libertà dei liberi si presenta, oggi più che mai, come una sfida impegnativa.
Significativamente uno dei maggiori psicologi sociali del Novecento, E. Erikson, riconosce nell’età adulta la fase in cui avviene il superamento di quella logica identificatoria, autoreferenziale e confusa, propria dei movimenti espansivi, in nome di altre dinamiche, più appropriate alle esigenze della crescita. Egli parla a proposito della possibilità di una evoluzione, con l’età matura, verso la generatività che, opposta alla stagnazione, va vista come una tappa dello sviluppo verso lo stadio della maturità da parte di un individuo, di una organizzazione, di una società.
Intesa in questo senso, la libertà generativa può suggerire la direzione per uscire dalla crisi attuale.
Il passaggio dalla adolescenza alla maturità, per non implodere, richiede l’incontro e lo scontro con la realtà (intendendo quest’ultima come vita), la cui riammissione può condurre a generare qualcosa di nuovo, un mondo prima sconosciuto.
Non a caso il richiamo evocato dal termine stesso va, anzitutto, alla vita. La generatività si caratterizza, infatti, per la capacità di mettere al mondo e di curare e custodire ciò che viene fatto esistere. Essa è dunque attraversata da una pro-tensione contrassegnata dai tratti del dispendio e della gratuità, come mostra la sua preoccupazione di creare e dirigere una nuova generazione: preoccupazione da intendersi, in senso lato, come cura delle premesse favorevoli per allestire le condizioni – in chiave sostenibile verso il futuro (attenzione generazionale), innovativa (geniale) e di eccedenza (che riapre la generosità) – della convivenza sociale rispondendo alle sfide del tempo, senza regressioni all’indietro. Rischio, peraltro, che lo stesso Erikson prevede nell’indicare la eneratività come una potenzialità che potrebbe essere addirittura offuscata dal suo contrario, cioè dalla stagnazione, ossia da un ripiegamento passivo nell’inazione, nell’improduttività e nell’impoverimento culturale: tratti emergenti laddove si cade nel vicolo cieco di soluzioni de-generative, semplicistiche e deprivanti, che mirano a una qualche forma di contenimento della libertà piuttosto che di assunzione del rischio della libertà e, più in particolare, di una libertà che probabilmente non abbiamo ancora conosciuto e fatto esistere.
Generare implica, dunque, la volontà del soggetto, il quale può immettere novità e discontinuità nell’ambiente. Esprimendo il sovrappiù dell'iniziativa personale, la generatività ha a che fare con la possibilità di agire diversamente perché disponibili a pagare il costo di quell’azione – e, quindi, di agire in libertà. Ma, al contempo, essa chiede la disponibilità a riconoscere che questo atto creativo può avvenire solo dentro e grazie ad un mondo che lo costituisce e lo abilita. Generare significa far esistere qualcosa in un modo da demistificare la volontà di potenza di una libertà che si concepisce come inizio assoluto e autoreferenziale.
La generatività, infatti, non costituisce una mera prerogativa individuale né autoreferenziale. Non è così, del resto, nemmeno dal punto di vista biologico. Tanto meno quando si tratta di generatività sociale, di una generatività cioè che avvia dei processi senza un termine definito, poiché hanno a che fare con aspetti della vita – individuale e collettiva – che si ripropongono continuamente dentro le relazioni (come, per esempio, la costruzione dell’identità, la realizzazione di un’opera, l’istituzionalizzazione di pratiche, ecc.). Gli studi, a proposito, mettono in luce la crucialità della dimensione relazionale e, in senso ampio, del contesto ambientale. Ed è per questo che, come attori, siamo poi anche interpellati ad assumerci la responsabilità per le generazioni successive, sia dal punto di vista delle realizzazioni che della trasmissione di significati.
Di fronte alla crisi storica che stiamo attraversando, la relazionalità della nostra condizione, pur essendo sempre problematica, non può più essere ignorata, pena l'aggravarsi dei problemi legati alla convivenza - aggravamento dovuto alla pericolosa tendenza a rimuovere la realtà che costituisce uno dei difetti di fondo del tecno-nichilismo.
Al contrario, essere generativi comporta il comporre la libertà di scopo – tendenzialmente dissipativa dell’intorno nonché del Sé - con l’esigenza di lasciare traccia in un modo discreto, rispettoso cioè di chi sta attorno o verrà dopo di noi. Tutto ciò contempla la possibilità di assumere che l'esistenza dell'altro non è una proiezione del proprio desiderio o un ostacolo alla propria soddisfazione, ma anzitutto dimora della propria identità. Il "prendersi cura", con le svariate tonalità che articolano questa dinamica, permette di personalizzare le esperienze che si compiono, ricomponendo l’universale con il particolare, l’individuale con il sociale, la libertà con il legame.
L'ipotesi che avanzo è che questa idea di generatività, continuando a parlare di libertà, può essere in grado di liberare nuove energie psichiche all'interno delle società mature, dando vita ad una nuova stagione di crescita, anche (ma non solo) economica. Qualitativamente diversa da quella alle nostre spalle.
Prima di tutto, dimensione individuale e dimensione sociale si intrecciano profondamente nel delineare la generatività, in un equilibrio che mantiene il valore di entrambe i poli. Pertanto, la generatività non si riduce ad azione pro-sociale o altruistica che entra in scena, in genere, solo in un secondo momento, ma riguarda qualcosa che investe e dà spazio alla soggettività in quanto soggettività che si comprende, per sua natura, relazionale in sé e, di conseguenza, anche sempre generativa (o, al contrario, degenerativa): soggettività generata mediante il riconoscimento e la stima di alter, e capace, a sua volta, di riconoscere e stimare – di generare – la soggettività dell’altro. Citando ancora la prospettiva lacaniana, questo significa che l'universo del desiderio, diversamente da quello del godimento, non è mai un universo chiuso; significa che l'Altro è sempre coinvolto nel desiderio, che il desiderio si nutre non di oggetti, ma di legami.
In secondo luogo, generare vuol dire star dentro senza venirne sommerso in una situazione, una storia, un ambiente naturale, un contesto relazionale. Significa curare ciò che viene fatto esistere e riconoscere, al contempo, che qualcosa ci supera e può esistere a condizione di immergerci nella concretezza della realtà come vita nel suo essere processo e forma, potenza e limite, funzione e significato. Essere generativi significa, in questo senso, accettare il rischio di mettere al mondo un valore che vale la nostra stessa vita e che pure mai potremo possedere: che sia un figlio, una scuola di pensiero, un'impresa, una associazione, un'opera d'arte, una famiglia, generare vuol dire entrare nel flusso della vita e quindi accettare che il generato troverà le sue vie, diverse, in tutti i casi, dalle nostre. In questo modo, la libertà generativa è capace di spendersi, fino allo spasimo, senza però farsi catturare dalla tentazione mortifera dell'ossessione del controllo. Da questo punto di vista, occorre passare dal consumo all'investimento, dalla rendita alla produzione, dal godimento immediato al desiderio di senso.
In terzo luogo, la libertà che guadagna la sua maturità - diventando generativa - e consapevole che l’investimento sul futuro significa anche tensione oltre il limite della propria finitezza, attraverso quelle tracce di sé lasciate nelle proprie azioni, relazioni, realizzazioni. In questo senso, essa sta dentro la vita reale quale ambiente che offre una dimora (heim) di cui si prende cura, ospitando a sua volta quell’ambiente in sé, contribuendo a generarlo e rigenerarlo continuamente, con l’attenzione a contrastare le patologie che sempre possono insorgere nel momento in cui avviene uno sbarramento che si trasforma in chiusura rispetto all’alterità. Questo prendersi cura si dirige verso realtà concrete, esito della combinazione variabile di spazialità fisiche e simboliche (come per esempio la casa, la famiglia, la città, un territorio, i legami, la natura), ma esito anche di diversi campi del sapere, quadri valoriali e autorità, forme culturali e istituzionali, ammettendo l’esistenza di un prima, di un adesso e di un dopo, in relazione a cui si assume la responsabilità del proprio darsi restando aperti a – e in ascolto di - ciò che non è prevedibile pur se non genericamente indistinto. Tale libertà è pertanto una esperienza anzitutto relazionale e di responsabilità, di risposta anche ma mai meramente (o, comunque, non solo) tecnica alle questioni, accettando piuttosto di esserne coinvolti, di lasciarsene interpellare e, per questa via, di restituire un senso.
Infine, la generatività fa nascere qualcosa che ha e si dà tempo in un mondo in cui tutto è istantaneo e gli dà uno slancio di lungo periodo: dunque, qualcosa che risponde a chi verrà dopo di noi, andando al di là dell’istante. Le modalità proprie dell’azione generativa divengono quelle del creare, mantenere e donare. Ne consegue che la libertà che accetta la sfida della generatività, mentre fa esistere e cura ciò che crea, non lo trattiene presso di sé, ma lo lascia a disposizione di altri, senza tuttavia che termini la responsabilità nei suoi confronti. E questo perché non termina l’essere situati e immersi nella relazione del rispondere-a-qualcosa e a-qualcuno, ben al di là dell’idea dell’essere umano come dotato genericamente della libertà quasi che quest’ultima sia una qualità che si aggiunge a tante altre che ci contrassegnano. Piuttosto, la persona è un essere-di-libertà, la cui individualità – strato portante della libertà - è una forma che, nel limite, rimanda continuamente ad altro da sé, tanto che il limite (proprio della forma) diviene il varco per entrare in rapporto con la realtà.
In tutti questi modi, la libertà generativa può diventare capace di un rinnovamento continuo di quella presenza cui la forma rimanda: la realtà della vita, nel suo essere mistero e limite, e perciò più della forma, è pur sempre, al tempo stesso, forma la cui definitezza rimanda, come presenza, all'altro da sé, cioè ad un infinito.
In questa dinamica, la libertà generativa – né meramente passiva ma nemmeno meramente attiva, è, in questo senso, "deponente" – non trova la sua espressione, il suo senso né nella totale apertura incondizionata agli eventi, fino a rifuggire qualsiasi forma, né nella chiusura autoreferenziale e statica di una forma divenuta sostanza, bensì nella dinamica propria della vita nel suo uscire da sé pur rimanendo se stessa, evitando quindi che l’individuo si frammenti nei suoi prodotti o si lasci assorbire da sistemi (culturali, sociali, tecnici) che lo sovrastano oppure si chiuda in difesa passiva rispetto a ciò che è altro da sé per non lasciarsene contaminare.
Trovando la sua dimora nel limite, la libertà generativa è così capace di compiere il miracolo di spostare l'asse della crescita dall'espansione - puramente materiale, individuale e quantitativa - all'eccedenza - qualitativa, relazionale, spirituale. E, per questa via, essa è capace di dare vita ad una nuova economia psichica capace di sostenere una nuova stagione di sviluppo. Il tutto ad una condizione: che, nel frattempo, diventiamo capaci di costruire forme istituzionali in grado di "ospitare" e far fiorire questo diverso immaginario della libertà.