“Direttiva 95: l’Italia deve fare di più”. Intervista a Luciano Hinna, Presidente Consiglio Italiano per le Scienze Sociali. (Scopri di più su:
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Professore Lei che è un esperto storico della CSR in Italia, come giudica il recepimento della Direttiva 2014/95/UE?
Il recepimento di una Direttiva in cui si parla di responsabilità sociale di impresa e di comunicazione non finanziaria è di per sé un fatto positivo, portando la tematica all’attenzione del governo e dei sistemi produttivi del paese; il problema è come se ne parla. La CSR non può essere prevista da una norma, essa si colloca – e lo ribadiva 15 anni fa la Commissione Europea nel Libro Verde – nello spazio etico delle imprese ovvero nello spazio del non esigibile per norma. D’altra parte la posizione europea del 2001 era ed è molto chiara: la CSR si adotta in via volontaria non in via obbligatoria.
Tuttavia sono favorevole ad un “invito”, ad una “raccomandazione” alle imprese – non mi piace l’obbligo – a rendicontare attraverso dati non finanziari la ricaduta sociale della loro attività: gli obblighi costano e scatenano sempre la corsa all’adempimento burocratico senza garanzia di risultato.
Quali sono allora secondo Lei i problemi su tavolo?
Vanno definiti meglio alcuni aspetti: chi, cosa e, infine, come rendicontare.
Si spieghi meglio.
È molto semplice. L’attuale perimetro di applicazione previsto, se la Direttiva verrà recepita così come è apparsa in consultazione, include meno di 200 aziende che, nella maggior parte dei casi, almeno formalmente, si sono già orientate alla responsabilità sociale, se si prende come mark la pubblicazione di un bilancio o di un rapporto sociale. Con questo non voglio dire che il recepimento è inutile, ma che forse si poteva cogliere l’occasione per allargare il perimetro di applicazione.
Il secondo punto sul quale riflettere è l’ampiezza e la profondità del termine CSR: si rischia di dare per scontato ciò che scontato non è. Nel passato abbiamo assistito ad aziende che rendicontavano il loro impatto ambientale ma non erano aziende che inquinavano, o aziende che inquinavano tanto ma che raccontavano le pari opportunità, la filantropia e la sponsorizzazione culturale. Con questo voglio dire che gli ambiti della CSR sono tanti -ambiente, inquinamento, salute, salute e benessere dei dipendenti, rispetto dei diritti umani per chi delocalizza, rispetto della diversity e non solo di genere, onlus aziendale, filantropia-solidarietà-beneficenza-sponsorizzazioni culturali, utilizzo di paradisi fiscali e trasparenza, sostenibilità etc., e non si può liquidare il tutto solo con l’espressione CSR.
Senza pensare che è poi importante distinguere almeno un paio di cose: la CSR di filiera, la distinzione tra CSR nella creazione e nella distribuzione della ricchezza, la distinzione tra marketing sociale e CSR pura: quella che gli americani chiamano “CSR in action” per distinguerla dalle campagne di marketing combinate ad iniziative di CSR come ad esempio la raccolta fondi per strutture non profit, che sempre CSR è, ma un po’ diversa da chi ha ritorni di sola immagine.
Nella Direttiva e nel recepimento si fa riferimento ad alcune dimensioni della CSR, ma senza un adeguato livello di declinazione. Forse poteva essere il caso di definire in maniera puntuale e il più possibile esaustiva ambiti e tematiche di CSR e richiedere una rendicontazione su tutti i fronti, lasciando agli stakeholder di ciascun ambito giudicare se l’azienda si sia comportata in maniera responsabile o meno.
Inoltre, come già accennato, a seconda del settore, dei mercati, dei paesi, del territorio e dell’organizzazione di un’impresa, può essere più o meno rilevante una determinata dimensione di CSR rispetto ad un’altra, in relazione agli impatti che l’azienda può generare e agli stakeholder di riferimento.
Liquidare tale problematica con la sola richiesta di indicare “i principali rischi, generati o subiti, connessi ai suddetti temi e che derivano dalle attività dell’impresa, dai suoi prodotti, servizi o rapporti commerciali, incluse, ove rilevanti, le catene di fornitura e subappalto”, non garantisce il superamento dell’autoreferenzialità delle imprese nelle loro comunicazioni non finanziarie, anzi, lo amplifica, creando nell’analisi del rischio (fatta da chi e secondo quali metodiche di valutazione?) l’alibi e la legittimazione di una rendicontazione incentrata solo su alcune tematiche e dimensioni di CSR.
E veniamo al terzo punto: come rendicontare e con quale standard per censire sia il confronto che la verifica dei dati non finanziari.
Ma questo dovrebbe essere una soluzione e non un problema.
In realtà questo è un non problema e mi spiego. Raccontare come una azienda interpreta la CSR e come la declina è un atto di comunicazione, uno slancio di fantasia per colpire l’attenzione degli stakeholder chiave e come tale non si può omologare ed ingabbiare come fosse un bilancio di esercizio destinato alle borsa. Il confronto non esiste. Il destinatario della rendicontazione sulla attività di CSR è lo stakeholder e, a differenza dello shareholder, non ha possibilità di scelta e non fa un confronto tra aziende ma confronta solo le proprie aspettative con ciò che l’azienda fa. Esistono certo degli standard in giro per il mondo, ed anche noi in Italia non ci siamo fatti mancare i nostri, ma la maggior parte delle aziende fanno un cocktail di standard, fanno shopping di qualche indicatore se sono utili a raccontare ai loro stakeholder la loro CSR.
Poi si pone il problema della revisione di questi risultati sociali conseguiti: ma sono audit di processo o di output e quindi di documento? Se sono di processo sono molti simili agli audit della qualità, – e non dimentichiamo che gli stessi ISO non parlano di standard, ma solo di linee guida – se sono sul documento la cosa si complica: i dati sul rendiconto sociale li facciamo certificare dalle società di revisione che certificano il bilancio economico? Hanno le competenze per farlo? È un servizio in più che queste aziende offrono? – e questo spiega allora tutta la pressione sugli standard: senza standard non c’è il business della revisione -. Forse è meglio il rating etico? Ed emesso eventualmente da chi? Dalle agenzie che lavorano sul rating finanziario o agenzie specializzate come ci sono all’estero? Vado a memoria, ma in Italia sono solo due o tre.
E allora come se ne esce?
In realtà è lo stakeholder che “certifica” il rapporto sociale con i suoi comportamenti, ma il tutto può essere formalizzato attraverso varie tecniche di social auditing ed una di queste, usata qualche volta anche in Italia, si chiama panel degli esperti dove si chiede un giudizio agli opinion leader delle varie categorie di stakeholder, alle associazioni di quest’ultimi, che sono attenti a certi particolari valori (Amnesty International per i diritti umani, le associazione degli ambientalisti per l’ambiente, i sindacati per la sicurezza sul lavoro e la diversity, le associazioni dei consumatori per la qualità etica dei prodotti etc).
Insomma, sembra che Lei abbia un atteggiamento negativo sulla iniziativa legata al recepimento della Direttiva?
No, tutt’altro. Sono favorevole se il recepimento della Direttiva viene utilizzato come un’occasione per fare qualche cosa di nuovo e non per sancire ciò che già esiste. Per esempio, in alcuni paesi hanno messo l’obbligo – e da diversi decenni – di rendicontare la CSR a quelle aziende che si aggiudicano appalti pubblici, a quelle che ricevono contributi pubblici e a quelle che utilizzano ammortizzatori sociali simili alla nostra cassa integrazione. Non sfuggirà come da noi molto spesso ci sono aziende che con denaro pubblico invece di creare valore sociale creano “disvalore sociale” e, siccome lo Stato è uno stakeholder importante, potrebbe imporre alcuni indicatori delle ricadute sociali ottenute con quei fondi. Se un’azienda è orientata alla CSR pretende che i suoi fornitori che lavorano nella sua stessa filiera facciano lo stesso, non si capisce perché non faccia la stessa cosa lo Stato che ha un potere contrattuale ancora più forte e che dovrebbe avere la CSR tatuata nel suo DNA.
Pretendere di conoscere le ricadute sociali delle aziende che hanno ricevuto fondi pubblici a diverso titolo è anche un elemento di democrazia oltre che di responsabilità. Ma questo nel recepimento della Direttiva non c’è. E ovvio che in questo caso certamente vedrei un obbligo di legge per regolare la relazione tra Stato e quelle categorie di imprese che oggi, però, non sono nel perimetro della adozione della Direttiva. Non va dimenticato che la cosa sarebbe utile anche ai fini ANAC, Autorità di contrasto alla corruzione, che ha previsto strumenti simili.
Ma se lo Stato individua degli indicatori di fatto propone uno standard e Lei è contrario agli standard.
Quelli che lo Stato richiederebbe come indicatori di ricaduta sociale non sono standard, ma sono indicatori chiave (KPI) di uno stakeholder chiave che è lo Stato, ma ovviamente non è l’unico stakeholder e non sono gli unici indicatori: ci sono tutte le altre categorie di stakeholder che sono sensibili ad altri indicatori chiave.
Ciascuno di noi è stakeholder di chissà quante aziende e quando copriamo un prodotto, compriamo anche i valori di cui quel prodotto è il frutto; è legittimo, quindi, che ciascuna categoria di stakeholder chieda alle aziende, per soddisfare la propria domanda di informazione e trasparenza, i suoi indicatori non finanziari dando in cambio reputazione e consenso. Pretendere che gli indicatori che vanno bene per lo Stato, o peggio ancora ritenere che gli indicatori pensati da qualcuno vadano bene per tutti, è un atto di arroganza intellettuale e se lo fa lo Stato è ancora più grave: è ancora il principe che decide le informazioni che necessitano al suddito ignorante. Ma oggi lo stakeholder è depositario di un’intelligenza collettiva che lo Stato non ha.
Le aziende che si sono realmente orientate alla responsabilità sociale, e non quelle che hanno messo insieme quattro indicatori ispirandosi a qualche standard solo per dire che sono socialmente responsabili, hanno colto a pieno il valore della relazione con gli stakeholder che va ben al di là del semplice reporting: da un lato cogliere prima e meglio degli altri i cambiamenti e le opportunità di crescita, miglioramento e innovazione e, dall’altro, gestire un asset intangibile del loro patrimonio che è la reputazione, che si conquista in anni e si perde in un minuto. Questo è il vero ritorno sull’investimento in CSR, sul quale il recepimento della Direttiva potrebbe essere l’occasione per sensibilizzare i consigli di amministrazione delle imprese, spesso troppo distratti o troppo attenti ai soli risultati economici di breve periodo.