Imprenditoria comunitaria a matrice cooperativa. Apprendimenti da casi internazionali. (Scopri di più su
Euricse.eu)
- di Flaviano Zandonai e Jacopo Sforzi
Esaminare e presentare alcune buone prassi internazionali relative al fenomeno delle cooperative di comunità. Questo era il compito di Euricse nell’ambito di uno degli otto studi di fattibilità finanziati dal Ministero dello Sviluppo Economico, in collaborazione con Invitalia, volti ad esaminare possibili strade e modelli di collaborazione innovativa tra il sistema pubblico e il movimento cooperativo.
L’indagine si è focalizzata su otto studi di fattibilità ritenuti “di frontiera” tra cui cooperative di comunità, welfare aziendale e cooperative sociali, agricoltura sociale e tecniche innovative in agricoltura, nuovi strumenti per sostenere la capacità economico finanziaria dei produttori di latte, la costruzione di modelli innovativi per lo sviluppo di una filiera turistico culturale cooperativa, cooperative di professionisti per la disabilità mentale e social design network, con il potenziale di diventare un importante ambito di sviluppo per le imprese cooperative. I risultati di questi studi sono stati presentati la settimana scorsa a Roma con la partecipazione del viceministro Teresa Bellanova e di numerosi cooperatori che sperimentano da vicino le dinamiche dei mercati e dei sistemi di riferimento degli studi di fattibilità così come dei centri di ricerca coinvolti nella ricerca.
I ricercatori di Euricse, Jacopo Sforzi e Flaviano Zandonai, nell’ambito dello studio di fattibilità “Lo sviluppo delle cooperative di comunità” realizzato in collaborazione con Irecoop Emilia Romagna, Lama Development & Cooperation Agency, Italia Consulting Network, hanno analizzato alcune esperienze internazionali appartenenti ai differenti contesti socio-economici e giuridici.
In particolare, l’analisi aveva lo scopo non solo di raccogliere informazioni utili per la comparazione rispetto ai casi italiani, ma anche di sollecitare una riflessione sulle possibili evoluzioni dei modelli di impresa comunitaria.
Nel testo che segue, Flaviano Zandonai riassume quanto abbiamo appreso da casi internazionali sottolineando però che non siamo ancora in una fase di modellizzazione avanzata dell’impresa di comunità. E’ più utile perciò guardare a singole componenti costitutive, gestionali e di policy convinti che il trasferimento di questa esperienza oggi, e forse in generale, è soprattutto questione di adattabilità a contesti, settori, mercati.
Due dei quattro paesi analizzati sono l’antitesi che esprime la spaccatura europea rispetto alla crisi: Germania e Grecia. Gli altri due invece – Gran Bretagna e Francia – rappresentano l’asse costitutivo di un’Unione Europea che è alla ricerca di se stessa anche per quanto riguarda le nuove forme di mutualismo e di attivazione comunitaria.
Germania: impatto e modello di scaling delle cooperative energetichewind energy
Fenomeno analizzato: cooperative impegnate nella produzione e distribuzione di energie rinnovabili a cui si affiancano anche altre iniziative e servizi (welfare, educazione, cultura, ecc.) a favore della comunità locale.
Le cooperative e altre forme di impresa su base comunitaria sono leader nella produzione e distribuzione di energie rinnovabili. Hanno fatto, letteralmente impatto, cioè hanno contribuito a cambiare schemi di azione e politiche di regolazione perché attualmente producono il 48% delle energie rinnovabili in Germania, cioè dell’energia del futuro. Rispondono, quindi, alla provocazione contenuta in un recente articolo di The Guardian che si chiedeva se basta montare un pannello sul tetto per cambiare modello di consumo, la risposta delle cooperative energetiche tedesche è sì nella misura in cui diventano “leader di settore” affermando anche un diverso modello di coproduzione e di governance delle risorse.
Interessante è anche il loro percorso di crescita. E’ scaling in senso diffusivo (wide) soprattutto attraverso i parchi di energia eolica gestite da comunità (non solo locali) di utenti / consumatori. Ma è anche scaling nel senso del radicamento (deep), soprattutto guardando al modello degli ecovillaggi che riconvertono l’intera economia nel senso della sostenibilità.
Grecia: l’economia coesiva come risposta alla crisi
L’imprenditoria resiliente greca come risposta allo shock della crisi che ha creato nuove opportunità di sviluppo economico e occupazionale attraverso la riconversione in senso sociale di attività economiche come quelle legate al turismo e alla valorizzazione del patrimonio culturale.
In un quadro drammatico come quello greco si conferma la necessità di disporre di modelli d’impresa in grado di sviluppare economie che rigenerano asset locali (materiali e immateriali) inserendoli stabilmente in catene di produzione dove il valore – ad esempio dell’esperienza turistica – non è astratto ma condiviso da una pluralità di soggetti. In Grecia questa tendenza è evidente guardando al successo della cooperazione sociale, ma non nei settori che ben conosciamo in Italia (servizi sociali e inserimento lavorativo).
La crescita più significativa è infatti di cooperative sociali “del terzo tipo” cioè che agiscono come “motorini” di sviluppo locale valorizzando risorse sottovalutate o abbandonate in ambito agricolo, culturale, turistico, artigianale. Uno stimolo interessante considerando anche una possibile espansione del ruolo dell’impresa sociale non solo aggiornando settori, ma allargando le funzioni.
Francia: tecnologie per produzioni multifattoriali
Le cooperative di interesse collettivo (SCIC) francesi che hanno trovato una inedita modalità di implementazione attraverso la gestione di reti di servizi legati allo sviluppo di filiere agricole locali che impattano positivamente sui modelli di coesione sociale (CUMA).
La Francia dispone di un modello giuridico, quello della società cooperativa di interesse collettivo (SCIC), pensato inizialmente per operare soprattutto nel campo dei servizi alla persona e alla comunità. Si è poco diffuso, anche per un sistema di governance piuttosto complesso che richiede la presenza obbligatoria di più stakeholder nel board, ma un interessante applicazione è avvenuta in campo agricolo. E’ stato utilizzato infatti dalle CUMA – imprese agricole che forniscono i mezzi di produzione – per gestire, di nuovo, impianti di energia rinnovabile attraverso i quali smaltire la componente organica che avanza dai processi di produzione, redistribuendo l’energia localmente.
Un’esperienza in questo caso di nicchia da cui possiamo apprendere il valore della modularità dei modelli d’impresa e soprattutto la loro funzionalità quando si tratta di catene di produzione multi fattoriali, ovvero quelle che secondo l’OCSE produrranno più valore aggiunto – economico e sociale – nel prossimo futuro. E il campo agricolo, lo sappiamo, è molto promettente da questo punto di vista, come insegnava un arcigno agricoltore bresciano qualche tempo fa: “ormai non c’è più nessuna azienda agricola con una sola ragione sociale”. Altro tema legato all’esperienza francese è quello della tecnologia.
Non solo reti energetiche, ma anche monete complementare, reti wifi comunitarie, acquedotti, ecc. la cui efficacia è legata all’azione di “agenti di sviluppo” o “broker comunitari” che usano queste tecnologie come infrastrutture per abilitare iniziative di socialità ed economia di varia natura, configurandole in tal senso – come ricorda Lorenzo Sacconi – come veri e propri beni comuni.
Gran Bretagna: programmi pubblici per la rigenerazione sociale
Le community enterprises del Regno Unito impegnate nella rigenerazione di beni immobili e spazi pubblici, in ambito rurale e urbano, allo scopo di rivitalizzare i contesti sociali ed economici deprivati.
In paese che non è più parte dell’Europa e che è famoso per le sue politiche “liberiste” (anche a sinistra) c’è invece una politica pubblica a favore delle imprese di comunità che però, a ben guardare, non è proprio liberista, ma certamente “liberatoria”. Si chiama infatti “community right” e in sostanza assegna diritti di prelazione a cittadini organizzati in forma d’impresa per rigenerare beni immobili per funzioni di pubblica utilità: biblioteche, scuole, ma anche pub e negozi di prossimità. E’ interessante perché, al fondo, il meccanismo è simile al “regolamento sui beni comuni” adottato dal comune di Bologna e da molte altre città italiane, ma più orientato all’economia e ad asset consistenti. Un insegnamento importante anche in termini di accompagnamento grazie a strutture intermediarie come Locality e Plunkett foundation che favoriscono e accelerano i processi di rigenerazione e di creazione di impresa comunitaria.
Sui beni abbandonati da rigenerare a scopo sociale si apre una grande partita (si pensi ad esempio alla recente call UNIPOL Culturability), ma anche alla nuova legge sul terzo settore prevede misure in tal senso. Serve una politica, anche cooperativa, che scali sperimentazioni localizzate facendole diventare una vera e propria industry.
Che ne dite ad esempio di un’ALLEANZA PER 100 COMUNITA’?
Questo lavoro fa parte, insieme ad altri, di un impegno più ampio di Euricse nell’ambito dello studio delle cooperative di comunità cha ha
radici profonde e che ha già prodotto un
libro bianco. L’impegno continua anche nell’ambito della ricerca
“Imprese e cooperative sociali e di comunità“.