“Tra multinazionali e territorio c’è un estraneità abissale”, la globalizzazione ha dato la possibilità di delocalizzare la produzione, spingendo le grandi aziende a spostarsi dove la normativa ambientale e i salari più bassi consentono di produrre a prezzi più convenienti. Una realtà in cui il profitto è l’unico credo e il lavoro non è altro che un fattore produttivo, con buona pace dei lavoratori e delle loro famiglie. “Un capitalismo selvaggio pronto a correre laddove il profitto è direttamente proporzionale allo sfruttamento del lavoro”. (Scopri di più su:
Labsus.org)
Proprio da queste “fughe” industriali nascono i protagonisti di
Lavorare senza padroni di Angelo Mastrandrea: ex dipendenti che si mettono in gioco e riavviano le fabbriche. Laddove il mercato fallisce la sussidiarietà viene in soccorso come strumento per avviare nuovi percorsi produttivi.
Un fenomeno – quelle delle fabbriche autogestite – che ricorda in parte le vecchie occupazioni di fabbriche degli anni settanta, ma che ha ripreso forza dopo il fracaso argentino del 2001. In Argentina partendo dall’occupazione delle fabbriche si è rilanciato un modello di riqualificazione industriale che ad oggi coinvolge 300 fabbriche recuperate, impiegando circa 10 mila lavoratori. Un modello che è passato dal Venezuela di Maduro e che si è diffuso in tutta l’ America Latina fino ad arrivare in Europa. Nel vecchio continente la deindustrializzazione sta spingendo le esperienze di questo tipo a moltiplicarsi, così nel gennaio 2014 queste realtà si sono date appuntamento in Francia per mettere a confronto le proprie esperienze ed elaborare un modello comune europeo di worker’s economy, un’economia del lavoro da contrapporre direttamente all’economia finanziaria che sta distruggendo il tessuto produttivo di mezzo continente.
Lavorare senza padroni è il viaggio di un giornalista che va alla scoperta di queste esperienze. Andiamo in Argentina, alla Zanon, un’azienda di ceramica – tra i primi esempi di auto-gestione – dove i profitti non vengono redistribuiti solamente tra i lavoratori, ma investiti a beneficio della collettività. Poi finiamo nella Grecia dell’austerity, dove la ERT, la TV di stato greca, prima è stata che chiusa dal governo, poi mantenuta in piedi dai suoi ex lavoratori e infine riconsegnata alla collettività con un progetto innovativo. Poi c’è la Fralib, lo stabilimento della Unilever che produceva il famoso Tè Lipton, dove i lavoratori si sono mobilitati contro la delocalizzazione della produzione in Polonia, decidendo di occupare lo stabilimento e di appropriarsi dei macchinari, fino a che non hanno ripreso l’attività sotto forma di cooperativa – la Thè et infuses – migliorando il prodotto e valorizzando i prodotti agricoli del territorio.
Poi ci sono tutti i casi italiani che sono molto più numerosi di quanto si possa pensare. C’è la Mancoop una cooperativa rilevata dagli operai, “un fiore sbocciato nel deserto della crisi economica del Mezzogiorno” che produce nastri adesivi nel sud pontino; c’è la Ri-Mafloow una cooperativa che prima produceva componenti per automobili e che oggi si occupa del recupero e il riciclo di materiali di scarto; c’è la Fenix Pharma una società di manager e informatori farmaceutici, che, dopo la smobilitazione da parte della multinazionale americana che possedeva la società, sono riusciti a ritagliarsi il loro spazio nel settore farmaceutico; ci sono le Officine zero, l’Ipt, la Nuova Cucina Organizzata, il Teatro valle e così via, un mare magnum di esperienze italiane che vanno dalle piastrelle agli infissi, dai medicinali ai sanitari, passando per attività culturali o eco-sostenibili coinvolgendo dal Nord al Sud dell’Italia.
Arriviamo così a scoprire che l’Italia è l’unico paese ad avere una legge esplicitamente volta a sostenere il recupero delle fabbriche: la c.d. legge Marcora. Una legge del 1985 partorita dalla mente di un ministro democristiano, Giovanni Marcora, che prevede contributi alle cooperative costituite da lavoratori in cassa integrazione, agevolazioni finanziarie e un fondo – denominato Cooperazione Finanza Impresa, gestito dal Mise – che eroga prestiti a tasso agevolato per riconvertire le strutture industriali. Ma c’è anche un altro pilastro, rappresentato da
Legacoop che sostiene, attraverso un fondo denominato
Coopfond la realizzazione del sogno di lavorare senza padroni, e che ad oggi conta 122 progetti, per un importo complessivo di quasi settanta milioni di euro. Esiste dunque un sistema che mette a disposizione dei lavoratori quello che manca: il capitale.
Insomma Lavorare senza padroni è un atlante di esperienze di cooperazione, uno strumento per scoprire le opportunità che esistono, ma anche un testo fondamentale per capire il mondo delle riqualificazioni industriali e le sue reali potenzialità. Un’indagine sul modus operandi di molte multinazionali e sugli effetti della speculazione finanziaria sul settore industriale: seguendo i passaggi chiave di ogni delocalizzazione l’autore delinea un quadro chiaro del panorama industriale italiano.
Ma il libro vuole anche rendere omaggio a quelle persone, uomini e donne, che hanno trovato il coraggio di investire i propri risparmi (spesso la stessa liquidazione) e la forza di rialzarsi dopo anni di cassa integrazione per affrontare le difficoltà economiche, commerciali e produttive che il rilancio di un’impresa richiede. Nell’omaggiare queste persone Mastrandrea ne esalta la caratteristica chiave: l’entusiasmo, “un sentimento che deriva dall’idea di essere artefici del proprio destino senza sentirsi pedine di un gioco nel quale non si decide nulla”.
Certo non è chiaro se siamo di fronte ad un vero e proprio modello alternativo di produzione e di lavoro, o se si tratta di esperienze tanto belle quanto limitate. Inoltre non sappiamo in che modo queste realtà si intersecano con le esperienze di rigenerazione e di riqualificazione di distretti industriali e in che modo possano dialogare con la cosiddetta sharing economy. Tuttavia l’autore ha pochi dubbi sul reale valore di queste esperienze: “Sto imparando in questo mio viaggio che l’unica possibilità di rinascita per la nostra Italia martoriata dalla crisi, sfiduciata da un capitalismo di rapina dei capitani coraggiosi che non hanno mai investito, e da una classe dirigente che da un quarto di secolo non riesce ad esprimere una politica industriale organica, l’unica possibilità è che si moltiplichino i tanti piccoli e onesti imprenditori di se stessi che ho incontrato nel mio peregrinare, gente che rischia e investe in proprio per costruirsi un futuro e lasciarlo agli altri dopo.”