Edgar Morin stesso, nel prologo del quinto dei sei tomi della sua monumentale La Méthode, ci svela la bussola segreta usata nel lungo itinerario di ricerca percorso, per oltre mezzo secolo, a suo dire, come il caminante della poesia di Machado, senza la certezza di sentieri tracciati in anticipo. (Scopri di più su:
DoppioZero.com)
Lapidariamente scrive: “L’ossessione principale della mia opera concerne la condizione umana”. E, infatti, i libri dell’esordio,
L’uomo e la morte (1951) e
Cinema o l’uomo immaginario (1957), a metà tra antropologia e sociologia, sono dedicati alla dimensione immaginaria, cioè mitologizzante, fantasmatica, onirica, intesa come parte integrante della realtà umana, innescata ora dalla paura della morte, già nelle società arcaiche, ora dai processi di proiezione e identificazione dell’uomo moderno di fronte allo schermo, in quelle sale cinematografiche dove tornano a brulicare i fantasmi, gli spettri, i demoni dell’uomo delle caverne discesi ormai nelle caverne interiori dell’uomo moderno e dove le antiche divinità dell’olimpo sono surrogate dallo star system del cinema e dello spettacolo.
Dopo alcune ricerche pionieristiche sulla cultura di massa che incrociano i lavori sulle mitologie moderne e sulla società industriale dei suoi mentori Roland Barthes e Georges Friedmann e dopo un soggiorno di studi al Salk Institute for Biologic Studies in California, a circa vent’anni di distanza, Morin completa il viaggio nella condizione umana con
Il paradigma perduto (1973). Qui, s’inficia definitivamente la concezione insulare dell’uomo, isolato dalla natura e dalla sua natura, che viene invece riscoperto nella polidimensionalità fisica, biologica, culturale, sociale, attraverso l’intersezione delle nozioni di uomo e di vita e l’integrazione delle conoscenze filosofiche e socioantropologiche con quelle della biologia, dell’etologia e dell’ecologia. Un nuovo approccio interdisciplinare che consente, ad esempio, di non dimenticare che il cervello studiato come organo biologico e lo spirito (mind) studiato come funzione o realtà psicologica, da discipline e dipartimenti universitari distinti, non esistono l’uno senza l’altro e soprattutto l’uno è nel medesimo tempo l’altro.
Viandante instancabile tra i saperi e tra i due secoli, ventesimo e ventunesimo, vagabondo e pontiere delle scienze umane e delle scienze naturali, refrattario alle specializzazioni e al rispetto delle frontiere stabilite, questo intellettuale-titano, che da pochi mesi ha varcato la soglia dei 95 anni, è sempre sfuggito intenzionalmente alla classificazioni disciplinari e accademiche tradizionali, ma a buon titolo è definibile filosofo, se, come diceva Maurice Merleau-Ponty, il filosofo si riconosce dal fatto di avere inseparabilmente il gusto dell’evidenza e il senso dell’ambiguità, che, nel caso di Morin, dovremmo chiamare meglio col nome di complessità. Complessità che lancia sicuramente una sfida alla nostra conoscenza, ponendola di fronte al suo statuto incerto e allo scacco dell’onniscienza, dal momento che “noi chiediamo legittimamente al pensiero di diradare le nebbie e le oscurità, di mettere ordine e chiarezza nel reale, di rivelare le leggi che lo governano, mentre la parola complessità può esprimere solo il nostro imbarazzo, la nostra confusione, la nostra incapacità di definire in modo semplice, di denominare in modo chiaro, di mettere ordine nelle nostre idee” (E. Morin,
Introduction à la pensée complexe, ESF 1990). Sono proprio i libri che abbiamo menzionato, infatti, il luogo di gestazione di quella scienza nuova da lui originalmente proposta, di quel paradigma alternativo del “pensiero complesso”, che esporrà poi col progetto enciclopedico de Il Metodo, dal 1977 al 2004, e di cui non smetterà, a più riprese, di reclamare l’innesto urgente nelle sfere cruciali della politica e dell’educazione, legando il successo delle riforme improcrastinabili per l’avvenire dell’umanità al presupposto di una riforma del pensiero e di una conoscenza critica della conoscenza (E. Morin,
La via, Raffaello Cortina editore 2012).
Sì, perché i nemici dichiarati di Morin, che ha combattuto per una vita, sono i principi di quel paradigma della scienza classica che abbiamo usato dal XVII secolo e da cui siamo ancora largamente influenzati. I principi di: ordine (determinismo; stabilità, regolarità; causalità lineare, senza ritorno), riduzione (il tutto interpretato a partire dagli elementi di base) e disgiunzione (tra discipline, oggetti, campo umanistico e scientifico, osservatore e osservato). Paradigma che pure ha permesso progressi ma che adesso mostra limiti, rischia di mutilare più che esprimere le realtà di cui vorrebbe rendere conto, impedisce di cogliere la complessità del reale, intessuto di aspetti diversi, inscindibili, intrecciati, complementari ma a volte anche contraddittori, e fa inclinare all’elaborazione di conoscenze chiuse, isolate, in ciascuna disciplina o specialità, che risultano impenetrabili e inaccessibili anche alle discipline affini. Solo con procedimenti di pensiero differenti, per converso, si può accedere alla conoscenza della realtà dell’homo complexus. E quali sono, secondo Morin, i principi che guidano allora il pensiero complesso, che permettono di accettare e affrontare la sfida della complessità?
Innanzitutto, il principio di organizzazione o sistema, il quale si dà a partire da elementi differenti e costituisce un’unità nello stesso tempo in cui costituisce una molteplicità. Si tratta cioè di pensare insieme l’uno e il molteplice, l’unità e la diversità, senza dissolvere il molteplice nell’uno e l’uno nel molteplice. Ad esempio, c’è unità nella diversità umana e c’è diversità nell’unità umana. Certo, c’è un’unità biologica: abbiamo lo stesso patrimonio ereditario della specie, che assicura caratteri unitari, o lo stesso cervello che dispone delle stesse competenze fondamentali, ma c’è anche una diversità biologica. Abbiamo una diversità psicologica, sociale, culturale tra gli esseri umani, nello spazio e nel tempo, ma c’è anche un’unità affettiva degli esseri umani (si è scoperto che riso, pianto e sorriso sono innati e quindi gli uomini non imparano a ridere, piangere, sorridere) e in tutte le società umane si riscontra la presenza di musica, canto e poesia. Qualsivoglia entità auto-organizzata è sempre qualcosa in meno e in più della somma delle sue parti e va decifrata con l’idea sistemica di emergenza e con l’idea cibernetica di retroazione: ad esempio, in un’organizzazione sociale ci sono vincoli (giuridici, politici, militari) che possono inibire potenzialità individuali, ma la totalità sociale ha proprietà emergenti come la cultura, il linguaggio, l’educazione che poi retroagiscono positivamente sulle potenzialità delle parti, cioè degli individui. Ma lo stesso potremmo dire della vita. L’organizzazione vivente produce qualità emergenti, che non esistono nelle macromolecole che la costituiscono: auto-riparazione, auto-riproduzione, capacità di nutrirsi, attitudine cognitiva.
Centrale è, inoltre, il principio dialogico. I fenomeni complessi possono presentare logiche opposte, antagoniste, ma complementari. C’è una dialogica fondamentale che caratterizza l’uomo: l’uomo non è solo sapiens, razionale, calcolatore, strategico, ma anche demens, folle, delirante, furente, irrazionale. Il pensiero disgiuntivo concepisce la follia dell’uomo come il venir meno della razionalità oppure concepisce l’uomo ora razionale, ora folle. Sapiens e demens sono, invece, incastonati e contenuti simultaneamente l’uno nell’altro, sempre attivi e potenzialmente creatori e distruttori l’uno dell’altro. L’uomo non è solo faber, fabbricatore di utensili, non è solo economico, prosaico, ma è anche ludens, immaginario, dissipatore, poetico, cioè inventore di giochi, danze, feste, credenze mitologiche e religiose, poesia. La vita umana ha bisogno tanto di razionalità quanto di affettività. Morin era arrivato a questa dialogica, a questa doppia identità, anche se inconsapevolmente, già nel suo primo libro, L’uomo e la morte, in cui aveva collegato e articolato conoscenze separate delle diverse scienze umane e della biologia e aveva cercato di capire alcuni fenomeni contraddittori, come per esempio: come accade che l’essere umano pur riconoscendo la morte come decomposizione del suo corpo, concepisca sin dalla preistoria la credenza in una vita dopo la morte? Come accade che lo stesso essere umano che lotta incessantemente contro la morte, poi sia capace di morire per i famigliari, la patria, la religione?
D’altra parte resterebbero incomprensibili sia il radicamento cosmico-biologico sia la polimorfa identità sociale e individuale dell’uomo se li pensassimo senza l’ausilio del principio della causalità ricorsiva. Un’organizzazione o un sistema genera effetti e prodotti che, a loro volta, sono necessari a produrre e causare l’organizzazione stessa: il ciclo della riproduzione sessuale produce degli individui che sono necessari per continuare il ciclo riproduttivo; le interazioni sociali degli individui producono linguaggio, cultura, educazione che però sono indispensabili alla formazione degli individui come tali, alla soggettivazione di ciascun essere umano, inimmaginabile in mancanza di linguaggio, cultura, educazione. Morin esamina nel Metodo anche gli anelli ricorsivi che hanno consentito agli esseri umani, nel corso dell’ominizzazione, il salto dall’animalità all’umanità, lo scarto rispetto agli altri primati: cervello→mente→cultura, ragione→affetto→pulsione e individuo→società→specie.
Così come, il principio che integra l’osservatore nella sua osservazione, il concettualizzatore nella sua concezione, che già si affaccia nella sociologia con Weber e nella fisica con Heisenberg, ci permette di capire che, se oggi possiamo addentrarci di più nello studio della condizione umana e avere più chances di comprenderne la complessità, è perché ci troviamo in un particolare momento dell’evoluzione e della storia umane. A partire dai primi processi di mondializzazione, siamo da entrati nell’“età del ferro planetaria”. Per la prima volta, l’uomo può riflettere sulla sua storia globale e sulla sua storia profonda e oggi le scienze consentono di ricostruire anche cronologicamente il racconto dell’universo, della terra, della vita, nel quale contestualizzare l’ominizzazione e la storia umana, che, sulla falsariga di Michel Serres, Morin chiama “il Grande Racconto” (E. Morin,
Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina Editore, 2015). Per giunta, siamo spinti a farlo dalla coscienza di avere una responsabilità sulla natura senza precedenti: se, fino ad un secolo fa, i comportamenti umani intaccavano solo ecosistemi locali, ambienti circoscritti, adesso intaccano l’ecosistema globale, al punto da poter compromettere le condizioni per la sopravvivenza della specie umana.
Il “pensiero complesso” è allora per Morin anche il giusto viatico per entrare nel XXI secolo e per disintossicarci dagli idola che l’attitudine al pensiero semplificante, parcellizzante e unidimensionalizzante ha disseminato nel XX secolo. Già quasi un decennio prima del crollo del Muro di Berlino (E. Morin,
Pour entrer dans le XXI siècle, Seuil 2004, prima edizione 1981 ), questo Cartesio del nuovo tempo ci ha invitato all’uso autocritico della ragione e a distinguere la razionalità (alla base di sistemi coerenti e teorie aperte all’autorevisione nello scambio con il mondo esterno e nel dialogo con altri sistemi di idee) dalla razionalizzazione (alla base di sistemi coerenti e dottrine chiuse, che scartano o rimuovono o giudicano apparente ciò che nella realtà le contraddice); a non compiere l’errore d’ignorare l’errore e a credere solo in verità falsificabili, biodegradabili, fragili ma viventi; a vedere e saper vedere la complessità; a non imprigionarsi nelle sicurezze mentali di concetti e parole dominanti, iper-reali, cardinali (destra/sinistra, capitalismo/socialismo, democrazia/totalitarismo, fascismo/antifascismo), ormai pietrificate, degradate e prive di virtù operativa; ad abbandonare la linea Maginot dell’antifascismo e temere e analizzare l’epidemia del nuovo, che in effetti arriva sotto le vesti dello sciovinismo del benessere, del populismo, del tycoonismo. E soprattutto ci ha spronato a entrare nel terzo millennio riconoscendo la cattiva novella che annunciava il fallimento della rivoluzione sognata nel secolo scorso nonché la fine di ogni idea di salvezza, convertita nella buona novella che annunciava la fine delle illusioni e degli errori legati ai miti ideologici del Novecento e la necessità di entrare nel nuovo secolo con il sentimento e la convinzione della complessità, col bisogno di un altro modo di pensare e di un’altra politica.
Il che significa, d’ora in avanti, guardare alla continuazione dell’avventura umana non con disperazione, ma con la fiducia in nuove potenzialità, con la consapevolezza che l’umanità non è qualcosa di dato, di fissato, ma il prodotto di un divenire sempre ambivalente. E il futuro possibile verso il quale ci dirigiamo, ma che è ancora una meta incerta, è tratteggiato da Morin, a più riprese, come la quarta nascita dell’umanità e l’avvento di una nuova forma di società (la società-mondo) dopo la paleo-società (prima di Sapiens), la proto-società (con Sapiens) e le società storiche: “La nascita delle società storiche comporta l’agricoltura, i villaggi, le milizie, le città, lo Stato, la sovranità, la guerra, la schiavitù, le grandi religioni, la filosofia, l’intelligenza, tutte cose assolutamente ambivalenti. Oggi, il problema è sapere se ci sarà una nuova nascita dell’umanità, insomma la capacità dell’essere umano, dei gruppi e delle società di confederarsi pacificamente sulla Terra” (B. Cyrulnik, E. Morin,
Dialogue sur la nature humaine, Éditions sur l’Aube 2010).
Detto in altri termini, si tratta di capire se si realizzerà l’ultima tappa dell’ominizzazione: il passaggio dall’ominizzazione all’umanizzazione, senza l’illusione che scompaia la bipolarità sapiens-demens, ma con la speranza che Sapiens possa essere meno demens e un po' più sapiens e Demens un po' più sapiens e un po' meno demens, fino ad innalzarsi a quella antropo-etica, realmente universalista e adeguata ad una società-mondo, finora soppiantata dalla rivalità delle etiche comunitarie (etniche, nazionali, sociocentriche), che dovranno aprirsi e ricollocarsi in essa.
Certo, potremmo esitare a seguire questo viandante e il suo metodo, che se da un lato ci promette un sapere non parcellizzato, non chiuso e non mutilato, dall’altro lato esclude a priori il raggiungimento della certezza e della completezza nella conoscenza, che ci chiede di immaginare e creare l’avvenire senza poterlo sottrarre alla casualità, all’incertezza e alla tragicità delle cose umane. E tuttavia, come conclude in Il paradigma perduto, “è corroborante sfuggire per sempre alla teoria dominante che spiega tutto, alla litania che pretende di risolvere tutto. È corroborante considerare il mondo, la vita, l’uomo, la conoscenza, l’azione come dei sistemi aperti. L’apertura, abisso sull’insondabile e il nulla, ferita originaria del nostro spirito e della nostra vita, è anche la bocca assetata e affamata attraverso la quale il nostro spirito e la nostra vita esprimono i desideri, bevono, mangiano, baciano”.