Passare dalla cultura dell’emergenza a quella della prevenzione in ambito sociale, civile e ambientale: una sfida che riguarda tutti. E che chiede alla politica e ai cittadini di ispirare le loro scelte a criteri di precauzione, sicurezza e prevenzione. Infatti, l’assunzione di un’autentica cultura della prevenzione, è il frutto di una mobilitazione integrale... (Scopri di più su:
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Dai migranti agli eventi meteorologici estremi, dal welfare ai terremoti, sono sempre più numerosi i casi in cui la parola “emergenza” viene usata a sproposito, cioè per situazioni che emergenze non sono. Per definizione, una emergenza è un evento totalmente inaspettato, le cui conseguenze sono difficili e urgenti da governare proprio perché non previste e non prevedibili. Troppo spesso invece i media definiscono emergenza qualunque situazione eccezionale (anche se largamente prevedibile, come i flussi migratori o l’epidemia di influenza nei mesi invernali), accentuando il carattere di minaccia per la collettività e distorcendo quindi la percezione di essere esposti a un pericolo. Questo non si rivela un aiuto alla corretta gestione delle situazioni e presta talvolta il fianco a una certa ambiguità politica, visto che lo stato di emergenza è spesso invocato per giustificare eccezioni alle ordinarie procedure decisionali e relative garanzie.
Tuttavia, non è immediato capire come passare dalla “cultura dell’emergenza” a quella della prevenzione in ambito sociale, civile e ambientale e come far sì che politica e cittadini ispirino le loro scelte a criteri di precauzione, sicurezza e prevenzione. Forse, riformulando la domanda, possiamo chiederci come convivere serenamente e, soprattutto, responsabilmente con il rischio dell’imprevedibile in un mondo che sotto tutti gli aspetti è “instabile” (cioè in movimento), riuscendo nel contempo a superare l’approccio obsoleto e antieconomico che si limita a prevedere la riparazione del danno o il rattoppo di situazioni compromesse una volta registrati i danni. Sebbene la storia italiana ci abbia insegnato che “prevenire è meglio che curare”, sappiamo bene che stentano a farsi strada concretamente i due principi cardini dell’etica sociale (e non solo ambientale), quello di prevenzione e quello di precauzione.
Il meccanismo del mercato, a cui sempre più spesso si tende a fare ricorso per risolvere ogni genere di problema, risulta infatti ben poco adatto allo scopo. Certo, il mercato è capace di attivare rapidamente e con efficienza le risorse per raggiungere un obiettivo, ma non è in grado di dare risposte dove scarseggiano o mancano del tutto i mezzi economici.
Non si tratta solo di quel cinismo di cui spesso è tacciato, ma di un limite intrinseco del suo funzionamento: il mercato, infatti, non percepisce i bisogni, per quanto giganteschi, ma la domanda, cioè i bisogni associati a una capacità di spesa. Può attivarsi rapidamente per produrre container e casette dopo un sisma, non per interventi di messa in sicurezza del territorio e del patrimonio edilizio in assenza di adeguati stanziamenti. La domanda è quanto sia sicuro continuare ad aumentare gli ambiti affidati ai meccanismi di mercato e se non dobbiamo invece riservare più spazio a istituzioni che funzionano con una logica differente. Il riferimento del mercato è il diffuso e radicato paradigma del profitto immediato, che conduce a privilegiare il tornaconto di breve periodo sugli effetti nefasti che ricadono sulla collettività: è il punto che accomuna in particolare le storie dei disastri ambientali. Come costruire una politica economica, ecologica, sociale e culturale in cui gli interessi privati e immediati siano subordinati a quelli collettivi e di lungo periodo?
Una seconda strategia spesso invocata di fronte alle vere o presunte emergenze è il ricorso alla severità delle norme e all’inasprimento delle sanzioni per chi le trasgredisce. Come in tutti i campi, anche in quello della prevenzione l’efficacia delle norme risulta bassa se non è sostenuta da un percorso pedagogico capace di attivare e sostenere la disponibilità personale e sociale a rispettarle. Troppe buone leggi restano lettera morta ed è antico il detto secondo cui “fatta la legge, trovato l’inganno”.
In particolare il mancato rispetto delle regole da parte dei responsabili politici e la continua ricerca di possibilità di derogarvi, magari proprio in seguito a presunte emergenze, diventa la conferma che la priorità accordata alla sicurezza e alla prevenzione è in realtà piuttosto bassa, a dispetto delle dichiarazioni di segno opposto. Questa incoerenza finisce per fare da alibi alle scelte individuali a favore di comportamenti più comodi o più vantaggiosi, anziché più sicuri.
Una terza opzione molto gettonata è l’aumento dell’informazione resa disponibile alla collettività, che sta alla base, ad esempio, della normativa relativa all’etichettatura e alla segnalazione dei rischi. Senza sminuire l’importanza della trasparenza, dobbiamo però ricordare che la mera disponibilità di informazioni più dettagliate non si traduce immediatamente in una più corretta percezione dei rischi, né modifica i comportamenti o favorisce lo sviluppo di una cultura della sicurezza. In una società come la nostra che soffre di un sovraccarico informativo, è fin troppo facile che le informazioni aggiuntive siano trascurate. Del resto la mappa del rischio sismico nel nostro Paese è nota da decenni.
Questi diversi strumenti (mercato, normativa e informazione) possono tutti recare un contributo, ma la vera svolta è rappresentata dal passaggio a un approccio integrale alla cultura della prevenzione e all’assunzione responsabile del rischio a livello collettivo. Questa prospettiva richiede che ciascuno – operatori economici di mercato, politici e funzionari pubblici, scienziati e tecnici, mondo dell’informazione e associazioni di cittadinanza attiva – dia il proprio contributo alla costruzione di un ethos comune, attivando percorsi personali e comunitari e recuperando la base sostanziale e partecipativa dei nostri processi democratici. L’assunzione di un’autentica cultura della prevenzione non può che essere il frutto di una mobilitazione integrale all’interno di una logica della solidarietà e dell’inclusione sociale. Si tratta di un impegno a lungo termine che mal si concilia con l’affanno provocato dal moltiplicarsi, spesso artificioso, delle emergenze.