Sono molti e di diverso segno gli elementi di interesse che caratterizzano la nuova edizione della mappatura europea sull’impresa sociale realizzata dalla Commissione Europea (
Social enterprises and their eco-systems: developments in Europe). L’intento dello studio era infatti l’aggiornamento di un quadro conoscitivo delineato solo
un paio di anni addietro, ma rispetto al quale si sono manifestati, nel frattempo, gli effetti di mutamenti di origine sia endogena che esogena. Vi era poi una ulteriore esigenza di aggiustamento dello stesso quadro, soprattutto per quanto riguarda la
sintesi europea che, nella scorsa edizione, aveva manifestato elementi di debolezza soprattutto nella sua parte cruciale, ovvero le raccomandazioni al policy maker comunitario. (Scopri di più su:
IrisNetwork.it)
Aggiornare ed aggiustare un rapporto europeo dopo meno di due anni: un indicatore che testimonia, tra l’altro, l’accelerazione dei percorsi di sviluppo del fenomeno oggetto di studio. Un’impresa sociale che si afferma e insieme si diversifica anche grazie all’effetto esercitato da un complesso di variabili esterne al settore che vanno dalle politiche pubbliche (legislative ma non solo), all’offerta di risorse filantropiche e finanziarie, alle strategie intraprese dalle forme istituzionali più o meno prossime a questo comparto: l’ambito cooperativo, il settore nonprofit, financo all’imprenditoria tradizionale sempre più attratta sul versante “social”.
E’ difficile riassumere nel dettaglio i contenuti del nuovo mapping europeo, rimandiamo per questo a una prossima pubblicazione sulla rivista
Impresa Sociale. Per ora ci pare utile evidenziare analogie e differenze che riguardano due temi particolarmente rilevanti della mappatura. Il primo riguarda il perimetro che delimita il campo dell’impresa sociale come forma istituzionale e non come mindset derivante dall’esercizio sociale dell’attività d’impresa prescindendo, anche solo in parte, da elementi di vincolo/opportunità sul fronte della governance.
Il secondo elemento riguarda invece il contesto delle politiche per lo sviluppo di un settore che, a livello europeo, è ancora largamente diffuso a macchia di leopardo, guardando ai modelli giuridico-organizzativi, agli ambiti di attività e agli approcci manageriali e in senso lato culturali. Una sfida, quella di definire un adeguato policy framework, che appare particolarmente urgente alla luce delle indicazioni ricordate in precedenza rispetto all’accelerazione e alla diversificazione delle traiettorie di sviluppo delle imprese sociali, un settore che è sempre più plurale e, forse anche per questo, necessita di configurarsi come una vera e propria industry caratterizzata da elementi identitari semplici e chiari per consentire una diversa declinazione dello stesso modello, senza per questo evocare i rischi di un suo “snaturamento”.
Prima di procedere con l’analisi, una premessa rispetto al punto di osservazione adottato, che sarà quello italiano, sia perché l’attenzione è rivolta al report nazionale, ma anche perché la diffusione e la storia dell’impresa sociale in Italia consentono di guardare da un punto di vista privilegiato anche ai contenuti del quadro europeo.
Il campo dell’impresa sociale in Italia delineato nelle due stesure della mappatura riprende, a livello di impostazione, quanto proposto nei
rapporti curati da Iris Network, ovvero imprese sociali riconosciute ex lege e imprese sociali che lo sono nei fatti in quanto hanno caratteristiche assimilabili ai dettati normativi ma soprattutto caratteristiche a livello organizzativo e di performance in qualche modo “promettenti” rispetto all’adozione di questo modello. E proprio quest’ultima tipologia rappresenta il principale elemento di sfida per i policy maker, come nel caso della riforma del terzo settore e dell’impresa sociale recentemente approvata in forma di legge delega dal parlamento italiano (l.n. 106/2016). Un dettaglio, quest’ultimo, di non poco conto che ha fornito ai ricercatori impegnati nell’aggiornamento della mappatura l’appiglio normativo per effettuare una sorta di downsize dell’impresa sociale nel perimetro del terzo settore. La riforma infatti inserisce l’impresa sociale come una sorta di veicolo societario privilegiato per i soggetti di terzo settore intenzionati a “fare l’impresa”. Ecco quindi che dalla prima alla seconda edizione della mappatura sparisce ogni riferimento a tutte quelle organizzazioni diverse da quelle nonprofit che comunque operano per la produzione di beni e servizi di utilità sociale per il perseguimento di obiettivi di interesse generale. Mentre invece il comparto nonprofit market oriented diverso dalle cooperative sociali (associazioni, fondazioni, organizzazioni di volontariato, ecc.) si assesta come principale attore insieme ad altri segmenti del movimento cooperativo che esplicitano un orientamento di “mutualismo aperto” diverso, anche in questo caso, rispetto alla cooperazione sociale (immaginiamo, ad esempio, le nascenti “cooperative di comunità”). Un’impresa sociale che quindi viene in qualche modo riportata nell’alveo originario, all’incrocio tra terzo settore produttivo ed economia cooperativa con enfasi sulla dimensione comunitaria.
Mentre invece vengono esclusi stream di impresa sociale emergenti che si originano in nuovi contesti, ad esempio quello dell’innovazione tecnologica con le startup innovative a vocazione sociale che si potrebbero considerare non solo potenziali, ma imprese sociali de facto. Inoltre si potrebbe aggiungere tutta quella imprenditoria tradizionale che agisce in contesti territoriali e di mercato dove la socialità variamente declinata viene sempre più riconosciuta come elemento di valore nelle supply chains. Probabilmente il percorso di convergenza tra economia e socialità di questi attori si realizzerà non attraverso l’impresa sociale (o non solo attraverso di essa), ma anche (e soprattutto) con dispositivi come le “società benefit”, guarda caso riconosciuti normativamente in parallelo alla riforma del terzo settore quasi a disegnare un quadro di “convergenze parallele”. Occasione persa per allargare il campo dell’impresa sociale oltre le colonne d’ercole del nonprofit o modalità per preservarne i caratteri di distintività? I posteri chiamati all’ardua sentenza saranno non solo i ricercatori e i policy maker, ma soprattutto gli imprenditori sociali che, sappiamo bene, sono specializzati nell’alterare i sistemi socio-economici e normativi a fronte di bisogni che cercano soluzione di “interesse generale”.
Il secondo elemento di interesse della mappatura riguarda il policy framework per l’impresa sociale che la prima stesura aveva avuto il merito di delineare non come una classica “agenda di politiche” composta cioè di soli dispositivi legislativi e amministrativi, ma piuttosto come un ecosistema composto di risorse di varia natura (economiche ed in kind), veicolate da diversi soggetti (pubblici e privati, interni ed esterni al settore), secondo altrettanto variegate modalità (erogazione di servizi a supporto e allocazione di risorse donative e finanziarie sotto l’egida di indicatori di impatto sociale).
In questo caso la nuova mappatura rappresenta un effettivo “upgrade” rispetto alla prima stesura che restituiva un quadro ecosistemico fatto più di strumenti e dispositivi piuttosto che di guidelines politico-strategiche. Se il primo policy framework elaborato nella sintesi europea era composto essenzialmente da standard certificatori, marchi di qualità, servizi a supporto e indicatori strettamente legati alla praticabilità della leva finanziaria, il secondo quadro ecosistemico abbonda di elementi di strategia per accendere (o potenziare) i principali motori dello sviluppo dell’impresa sociale: accesso ai mercati (di sbocco dei beni e servizi e finanziari), modelli di scaling coerenti con la natura di social business, riconoscimento normativo, sistemi di incentivo fiscale da incardinare sia alla domanda che all’offerta propria (o ascrivibile) all’impresa sociale. Un quadro ambizioso la cui realizzazione è affidata scommettendo sulle politiche pubbliche e sulla capacità di sviluppo autogenerata dalla stessa impresa sociale e dalle sue organizzazioni di rappresentanza e coordinamento. Le due mappe dell’ecosistema non sono quindi da considerare sostitutive ma piuttosto complementari dove la seconda ricostruisce, a questo punto ex post, il quadro di senso per lo strumentario applicativo delineato dalla prima.
Infine è utile svelare che alle due mappature hanno hanno contribuito in modo sostanziale due soci della rete Iris: Aiccon nella prima ed Euricse soprattutto nella seconda. Due soci della stessa rete che propongono modalità in parte diverse di leggere lo stesso fenomeno, in particolare per quanto riguarda il campo di azione dell’impresa sociale (e non il design dell’ecosistema). Ma è proprio dalla pluralità dei punti di vista e dal loro costante confronto che si può arrivare a una conoscenza che sia essa stessa come l’impresa sociale: inclusiva.