L’ascesa delle piattaforme cooperative, incluso Twitter? È in corso in questi giorni, dentro e fuori internet, un’iniziativa dalle implicazioni a tutto tondo: la campagna
#WeAreTwitter. (Scopri di più su:
Collaboriamo.org)
Sintetizzando: in risposta alle voci insistenti sulla
vendita della nota piattaforma social e ai mancati accordi con mega-corporation in tal senso, cresce l’interesse degli utenti stessi per mettere in atto un qualche tipo di acquisto collettivo dell’azienda stessa, puntando così alla creazione di una
specifica piattaforma-cooperativa. Si tratta cioè di condividere il futuro dell’azienda con quanti l’apprezzano e la utilizzano al meglio, i suoi utenti più affezionati.
Circola così una petizione (anche in italiano) da firmare e ridiffondere, c’è un gruppo di lavoro aperto e uno spazio di discussione su Slack. E tra le altre iniziative sparse, si prevede un incontro con i vertici dell’azienda a San Francisco per mettere sul tavolo proposte concrete in tal senso. Un impegno partito qualche settimana fa grazie a una riflessione apparsa sul Guardian a firma Nathan Schneider – propugnatore da un paio d’anni, insieme a Trebor Scholz e altri, del Platform Cooperativism (cooperazione di piattaforma). Un movimento variegato e dalle molteplici configurazioni che vanno ben oltre lo stesso termine-definizione.
Riusciranno i nostri eroi nell’ardua impresa? Quali le configurazioni di un’evenuale Twitter coop? Si vedrà: al momento la situazione rimane più che fluida. Ma è la questione di fondo a meritare attenzione. Al di là delle sue specificità pragmatiche, l’iniziativa va vista proprio nel contesto di tale movimento collaborativo dal basso. Si tratta cioè di sperimentare sul campo questo cooperativismo delle piattaforme nelle sue possibili connotazioni. Puntando alla definizione e messa in atto di alternative alle cyber-omologazioni e ai nuovi info-monopoli, sull’onda di
una critica continua dell’attuale scenario online, dai business model alle forme aggregative alla partecipazione diretta. Laboratori a cielo aperto per forme diverse e innovative di
cooperazione 2.0.
Per dare visibilità a questa “visione” globale, ecco allora
The Internet of Ownership, elenco in aggiornamento continuo degli ecosistemi democratici online emergenti nel mondo (ora a quota 125). Dove non mancano certo i progetti basati al di fuori del Nord-America, come Alpha Taxis (Parigi), Origin Club (Grecia), Partago (Belgio), ecc. Il sito offre poi varie news, dettagli e risorse sul fronte internazionale del
platform cooperativism.
Ours to Hack and to OwnUn quadro promettente che trova adeguato rinforzo in un’antologia fresca di stampa in Usa (presso
OR Books): Ours to Hack and to Own. Con un sottotitolo assai esplicativo: L’ascesa della cooperazione di piattaforma, una nuova visione per il futuro del lavoro e un’internet più equa. Curato proprio da Trebor Scholz e Nathan Schneider, il testo raccoglie vari saggi sul tema firmati da attivisti, studiosi ed esperti, tra cui alcuni di un certo peso (Michel Bauwens, Yochai Benkler, Astra Taylor, Douglas Rushkoff, Saskia Sassen, McKenzie Ward).
I vari interventi portano allo scoperto l’esistenza di un pianeta digitale di tipo diverso rispetto a quello odierno dominato dai grandi monopoli (Google, Amazon, Facebook, ecc.) e dalle mega-piattaforme social che vendono dati personali al miglior inserzionista e ignorano la privacy pur di gonfiare i portafogli degli azionisti. Chiarendo come spesso la stessa “sharing economy” in realtà non faccia altro che esacerbare le disuguaglianze sociali.
Uno scenario in cui il platform cooperativism (sempre nella sua accezione più ampia) svolge un ruolo di primo piano: integrando la ricca eredità delle cooperative tradizionali con la promesse della tecnologia odierna e futura, è possibile costruire un’internet libera da monopoli, sfruttamento e sorveglianza. Si tratta insomma di “riprendersi” la Rete e inondarla con la socialità orizzontale e costruttiva che ne caratterizzava gli albori, agganciata agli importanti rilanci sul territorio. E quindi anche le piattaforme “social” dovrebbero tenere fede a quest’ultimo aggettivo, puntando a strutture cooperative e partecipate – proprio quello che si propone la campagna
#WeAreTwitter.
Non resta dunque che rimboccarsi le maniche e coinvolgersi, pur nel nostro piccolo e senza soggezioni di alcun tipo. Meglio prima che poi.