La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta sembra giunta al termine. Che cosa la rimpiazzerà? All’ultimo G20 si è parlato di un “modello cinese”, un’economia che può tranquillamente fare a meno della democrazia. L’editoriale di Altreconomia 186, firmato dal direttore
Pietro Raitano. (Scopri di più su:
http://altreconomia.it/g20-declino-etica-sviluppo/?utm_source=wysija&utm_medium=email&utm_campaign=NL+6+ottobre+2016)
Il sontuoso summit G20 si è tenuto il 4 e 5 settembre 2016 a Hangzhou, megalopoli costiera cinese con quasi 7 milioni di abitanti. È stato il più costoso della storia (anche se non è dato sapere quanto sia stato speso con precisione), l’undicesimo da quando, nel 1999, si è costituito questo “forum internazionale” dei governi e delle banche centrali delle 20 maggiori economie del Pianeta. I lavori si sono conclusi con un documento corposo -oltre 7mile parole- suddiviso in cinque temi: coordinamento politico, crescita economica innovativa, governance finanziaria ed economica, commercio e investimenti, sviluppo.
Chi s’è preso -pochi- la briga di leggerlo vi ha trovato che i rappresentanti delle 20 potenze hanno riconosciuto che “la crescita economica è più debole di quanto vorremmo” e per questo hanno proposto le loro soluzioni per “far funzionare la globalizzazione”. Ne hanno ben ragione: i primi sei mesi del 2016 ci restituiscono un sistema globale sulla via di una recessione “secolare”, con il prodotto interno lordo che non cresce, i commerci internazionali che si riducono (le esportazioni cresciute solo dell’1%, a fronte del 5% medio dei 5 anni precedenti), la qualità del lavoro che peggiora, il sistema finanziario in balia di algoritmi completamente scollati dalla realtà, i fondamentali economici che non rispondono ad alcuna teoria. E a nulla sembrano servire le inedite iniziative delle banche centrali di tutto il mondo, che inondano il sistema di liquidità (la sola Banca Centrale del Giappone ha “stampato” moneta per l’equivalente del 60% del Pil del Paese).
Vista da qui, la globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta -e criticata dal ‘99- sembra essere giunta al termine. Che cosa la rimpiazzerà? A Hangzhou si è parlato di un “modello cinese”: il problema è che tra tutti gli elementi che lo contraddistinguono, il più significativo è che si tratta di un’economia che può tranquillamente fare a meno della democrazia.
Il G20 è stato poco più che un evento collaterale, e una volta di più i leader del mondo “sviluppato” hanno dimostrato di non essere affatto in grado di governare i profondi mutamenti di questi anni. La questione dei rifugiati ad esempio appare solo una volta nel documento finale: nel punto 44, quando i leader invitano “tutti gli Stati, in accordo con la loro capacità individuale, a incrementare l’assistenza alle organizzazioni internazionali per aumentare l’efficacia nell’assistenza dei Paesi coinvolti…”. Per inciso, è l’unico punto in cui appare la parola “umanitario”. Va da sé che tra i 20 “grandi” solo la Turchia -un’altra post-democrazia– è tra gli Stati che accolgono il maggior numero di rifugiati nel mondo (gli altri -Giordania, Etiopia, Iran, Libano e Pakistan- non fanno parte del gruppo).
Di certo a rappresentare la nutrita schiera di chi non accoglie rifugiati c’era l’Arabia Saudita, il che spiega anche la fugace apparizione della parola “pace” (una volta sola, al punto 45) nel documento finale del vertice, anche se viene riferita alle misure per combattere il terrorismo: “Condanniamo fermamente il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni, poiché pone serie sfide alla pace internazionale e alla sicurezza e mette in pericolo i nostri sforzi per sostenere l’economia globale e assicurare crescita sostenibile e sviluppo”. Non si è parlato, al G20, dei bombardamenti sauditi sullo Yemen -la ricchissima monarchia feudale che attacca il più povero Stato dell’area, e uno dei più poveri del mondo, una repubblica- che hanno finora causato non meno di 3.500 morti tra i civili e spinto il Paese sull’orlo della carestia, con sempre più frequenti episodi di morte per fame tra i bambini (negli otto anni di presidenza Obama, l’Arabia Saudita ha acquistato dagli Stati Uniti armi per circa 100 miliardi di dollari).
Ma lo Yemen, come le tante altre crisi in corso, ad esempio quella in Sud Sudan -5,1 milioni di persone bisognose di aiuti su una popolazione di 12 milioni, 1,6 milioni di sfollati interni e 975mila rifugiati fuori dai confini- non fanno notizia e non acchiappano clic.