In queste ultime settimane sono stati scritti moltissimi articoli, commenti e post su come si è attivata la popolazione italiana per dare aiuto ai connazionali terremotati. (Scopri di più su:
http://blog.confinionline.it/2016/09/19/riaccendere-la-fiducia-e-la-passione-nel-volontariato/)
Si leggono ancora di numerose iniziative di raccolta fondi e d’importanti sforzi di volontariato. Se da un lato chi è interessato a questi temi continua a leggere per tutto l’anno aggiungendo pezzi a un puzzle in continuo divenire, dall’altro chi lo fa solo come lettore di cronaca legato agli accadimenti del nostro Bel Paese, si ritrova a partecipare a discussioni dalla visione parziale che sarebbe bello fossero di respiro più ampio tutto l’anno e condivise non solo dagli addetti ai lavori.
Ma l’intenzione di questo post non è di accendere polemiche rispetto al tema degli aiuti e del loro coordinamento oppure della necessaria trasparenza in caso di emergenza, tutt’altro. Partendo da un interessante articolo di Ilvo Diamanti uscito su Repubblica alcune settimane fa, il tentativo è di creare uno spazio per continuare a riflettere e confrontarci sulla partecipazione, sull’attivazione delle persone e quindi sul volontariato in Italia, che oggi più che mai non sembrano due concetti che si sviluppano di pari passo.
Il professor Diamanti, vicentino di origine, sociologo e politologo di fama internazionale, il 29 agosto 2016 ha scritto “Terremoto, le due facce del volontariato” (se non lo avete letto lo potete scaricare
qui). Al di là del tema terremoto, i concetti che credo di particolare interesse sono: la “normalizzazione della volontà” e le “relazioni di reciprocità”.
La normalizzazione della volontà
Con normalizzazione della volontà il professore fa riferimento alle conseguenze di questa tendenza utilitaristica che ha assunto il volontariato negli ultimi decenni. Il volontariato organizzato è diventato impresa per surrogare l’azione di enti locali e Stato, siccome l’ente pubblico non ha abbastanza risorse per fare tutto ciò di cui c’è bisogno, allora si sollecita il privato sociale che diviene un sostituto e un “compensatore” dello Stato. Quindi la donazione di tempo viene data per scontata, utile, normale, perché necessaria ai bisogni a cui far fronte dove non arriva lo Stato. Bam, dritto al punto.
Le osservazioni di Diamanti sono assolutamente condivisibili, descrivono il fenomeno, riportano un dato oggettivo, ma è interessante provare a guardare oltre e risalire alla causa, o meglio a quale paradigma potrebbe esserci dietro. Lo Stato, si pensa, che debba coprire ogni bisogno sociale, culturale, assistenziale, e garantire il benessere della collettività. Oltre a essere una lettura sproporzionata del principio di sussidiarietà previsto dalla Costituzione Italiana, è soprattutto una visione univoca che non tiene in considerazione la natura e i desideri del genere umano (sicuramente influenzata da molti anni di welfare state). Ovviamente non credo che lo Stato debba assicurare tutto, ma sono sempre più convinta che la cura della collettività sia anche in gran parte della collettività stessa. L’essere “parte di” o “in comune” danno senso all’esistenza delle persone. Quindi è bene che se ne riprenda cura perché questo risponde ai desideri e alle esigenze personali dell’individuo. È una questione di visuali e di aspettative!
Relazioni di reciprocità
Questo si lega al secondo concetto: le relazioni di reciprocità. Le persone, non tutte ma in numero sempre crescente come dimostrano statistiche, ricerche e studi sociologici, desiderano aiutare gli altri, sentirsi utili, attivarsi per il prossimo, per stare meglio con sé stessi e vivere meglio nel contesto in cui vivono quotidianamente. Come dice Diamanti “senza relazioni di reciprocità, e quindi solidarietà, la società stessa non esisterebbe”.
Solo che non sempre scelgono di attivarsi all’interno delle organizzazioni, ma si muovono in maniera informale e individuale. Prendono e partono per andare ad Amatrice, dopo aver fatto un’attività di raccolta beni/risorse nel proprio paese oppure si attivano per prendersi cura del proprio quartiere e vivere meglio. Non trovano in questo senso riscontro nel volontariato istituzionalizzato. Le organizzazioni gli “stanno strette” perché probabilmente hanno un approccio non corretto nei confronti del singolo. Ad esempio chiedendo delle “scelte totalizzanti” in termini di tempo e responsabilità maggiormente legate alla cura di un’istituzione che di un progetto sociale condiviso. Oppure incapaci di concepire nuovi modi e nuovi schemi di partecipazione, in quanto legate a un sistema e a un modo di pensare che considera i volontari (e li tratta) solo come utili per fare delle cose invece di trasmettere loro la passione e il desiderio di stare meglio tutti attivandosi insieme e per gli altri.
Non credo che ci sia dolo o consapevolezza su questo approccio da parte delle organizzazioni, che rimangono un punto di riferimento importante per gli individui. In alcuni casi si può dire che ci sono spazi di miglioramento e valorizzazione del prezioso contributo del volontario.