«Mi attenevo in questo all’esempio dei viandanti che, smarriti in una foresta, non devono andare in giro errabondi, ora in una direzione e ora nell’altra, o, peggio che mai, fermarsi da qualche parte, ma devono camminare sempre diritto, per quanto è possibile, in una direzione, e non cambiarla senza un buon motivo… ». (Scopri di più su:
http://www.doppiozero.com/materiali/sentieri-lenti)
La seconda regola della morale provvisoria di Cartesio obbedisce anch’essa ai criteri suggeriti dal metodo; quest’ultimo (letteralmente, la via, odos, per) indica il cammino ottimale, segue il percorso più breve, come fa esemplarmente la traiettoria della luce. La Razionalità classica e la sua strategia dell’efficacia rispondono ad un principio di economia: è questo, ha osservato Michel Serres, il fondovalle (talweg) della cultura della modernità. Si tratta di risparmiare tempo, di conseguire il risultato massimo con il dispendio minimo, di procedere velocemente verso l’uscita dall’oscuro labirinto, dalla tenebrosa foresta dell’ignoranza. La via metodica si muove nell’uniformità di un deserto: riduce a zero le deviazioni, ricaccia nell’insignificanza le differenze, fonti di distrazione. Il metodo segue gli estremi, procede per massimi e minimi: accoglie soltanto quanto è così chiaro e distinto da non poter essere messo in dubbio, divide le difficoltà nelle parti più piccole possibili, segue l’ordine delle ragioni più semplici, compie le enumerazioni più complete.
Questo spazio omogeneo delle ragioni era già stato tracciato sulla sabbia del deserto dove Talete, ricorrendo all’ombra, misurò l’altezza delle piramidi: spazio delle similitudini, dove le stesse cose si ripresentano quando lo si divide a metà o in parti sempre più piccole. È lo spazio in cui la freccia si dirige inutilmente verso il bersaglio, dove Achille insegue in eterno la tartaruga; lo stesso spazio in cui Calvino voleva rendersi irraggiungibile, nascondendosi nella continuità della retta. Ma lo Zenone del nostro tempo, della nostra geometria post non-euclidea, abita varietà molteplici, ripiegate, dove l’operatore di variazioni non è la semplice divisione, è semmai il clinamen lucreziano, la deviazione infinitesima. Il nostro spazio-tempo non è il foglio bianco o la lavagna, è una varietà piena di buchi, di nodi, di pozzi ed ombelichi, di singolarità e punti di catastrofe, di curve di von Koch dalla dimensione frattale. Viviamo spazi topologici più simili al comporsi variegato di un paesaggio che non allo spazio vuoto delle traiettorie lineari della meccanica classica: colline e anfratti, svolte improvvise e salite scoscese, dove il passo e lo sguardo incontrano ostacoli, altrettanti vincoli che impongono o suggeriscono di procedere con lentezza.
Le norme universali del metodo valgono dove il locale si limita a riprodurre il globale, ma non ci aiutano a percorrere un paesaggio: la varietà differenziata dei luoghi costringe a divergere, circostanze impreviste impongono un cammino che asseconda le condizioni del terreno e le variazioni meteorologiche. Non un metodo, ma una randonnée, suggerisce Michel Serres. Nell’antico lessico della caccia, correre a randon significa seguire la corsa irregolare della selvaggina, mutare spesso direzione perché la bestia, con salti bruschi e imprevisti, cerca di depistare la muta dei cani. E se l’inglese attribuisce oggi a randon il significato di caso, il francese ha conservato in randonnée il senso del vagabondare, dell’erranza pronta a dare ascolto alle rapide metamorfosi delle nuvole.
Ulisse non poteva seguire una via metodica per tornare ad Itaca: le meteore, i giochi delle correnti, i cattivi paraggi, mille vincoli gli impedivano di procedere linearmente. L’abile marinaio è costretto al piccolo cabotaggio, a stare sotto costa per evitare venti contrari, ad andare un po’ al largo per lasciarsi trasportare dalla giusta corrente, ad ormeggiare lontano dal canto delle Sirene e dalle seduzioni femminili. Ulisse, polymethes, dalle molte astuzie, gioca con i vincoli che turbano il cammino, tiene conto del momento giornaliero o stagionale, è costretto a una rotta sinuosa, quasi mai la più breve: scopre così terre ignote che può cartografare, entra in porti sconosciuti prima (Kavafis). L’odissea è un esodo: non quello che giunge alla terra promessa attraversando il deserto, ma quello suggerito dall’etimo, il cammino seguito si stacca (ex-odos) dalla via scelta, qui e là, localmente, scarta rispetto alla norma. Ulisse si sottomette alle fluttuazioni dei flutti, del mare e del vento, scivola fra i turbini di Cariddi e Scilla, resta bloccato in porto per assenza di vento, subisce il fascino di attrattori strani. L’ordine del suo percorso si fa intreccio, gnommero, di cammini imprevedibili, come accadeva ai naviganti in cerca del passaggio a Nord-Ovest, fra il Nord del Canada e l’Artico; essi dovevano attendere il momento propizio, quando nei ghiacci si aprivano varchi, incerto tempore incertisque locis (diceva Lucrezio del clinamen), che nessuna carta poteva indicare, e il percorso era ogni volta da inventare.
Sull’oceano possono scatenarsi le intemperie, ma la nave prosegue lungo la sua linea diritta o la sua geodetica. Colombo non ha bisogno di deviare dalla sua rotta percorrendo la monotona semplicità dell’alto mare; i vincoli o le variabili sono ridotti a meri dettagli quando si attraversa l’oceano, feroce ma governabile. Quando si naviga invece su mari stretti, dal mareggio corto, fra le mille variabili dell’Egeo o del Mediterraneo, la chiglia può sbattere su scogli sommersi o frangersi sulla costa frastagliata, sospinta da venti impetuosi. La randonnée di Ulisse richiede più astuzia di quanta ne occorra sulla via per le Indie: correre al riparo di una baia foranea per sottrarsi al vento, doppiare un capo prendendolo a distanza per sfruttare le correnti. Andare diritto vorrebbe dire fare naufragio. La rotta di Ulisse è una maglia di fili intrecciati dove i capricci di venti, onde e correnti disegnano turbolenze, vortici di circostanze, singolarità locali. L’abilità di manovra impone mille svolte, l’invenzione di espedienti per gestire cambiamenti improvvisi: è questa l’intelligenza del gubernator, l’antico maestro della cibernetica di Wiener. È questa la ratio che nasce navigando sul mar Mediterraneo, la stessa del contadino che contende la terra all’erosione dei venti e delle onde, ai rovesci del tempo: intarsio di luoghi modellati dalle brezza, terrazze strappate allo scivolamento del terreno, lotti singolari che la salinità infetta o che il sole inaridisce. Le circostanze formano i luoghi: lungo le coste, le grotte sono abitate da divinità capricciose, all’interno, fra boschi e orti, altri geni popolano i paraggi.
L’epoca dei grandi viaggi prepara il terreno su cui si edifica la modernità: varcare gli oceani lungo archi di grandi cerchi, uscire dalla foresta seguendo una linea retta senza scorgere il ramo d’oro, equivale a gettare nell’oblio, a dissolvere, l’abito d’Arlecchino del paesaggio, annullare il locale nel globale universalizzato. Nello spazio reso omogeneo dal governo di un unico dio, la Ratio lineare scopre leggi valide per ogni latitudine: «Chi avrebbe potuto credere, nel corso dell’Antichità, all’esistenza di una legge universale, quando nessun ulivo si torce allo stesso modo e nessun colpo di vento assomiglia a quello della vigilia?» (Michel Serres). La mappa della modernità è lo spazio cartesiano, bianco e privo di curvature, dove le uniche differenze sono quantitative: possiamo così tracciare traiettorie senza ostacoli, nel vuoto in cui valgono le leggi della dinamica newtoniana. La mappa non è il territorio, si sa; ma qui la mappa cancella il paesaggio, insieme ai luoghi che il politeismo pagano faceva brulicare di differenze. Il pagus latino, circoscrizione rurale a cui era affidata la manutenzione di strade e beni comuni, boschi e pascoli, era anche luogo di culto, talvolta trasformato in pieve nell’epoca cristiana. Il paesaggio era pagina di pagine, esuberanza di differenze non sconfitte dalla reductio ad unum; e viaggiare fra i sentieri dell’orto o nell’intrico del bosco poteva riservare più sorprese che una navigazione verso l’Oriente esotico o lungo le rotte degli spazi siderali.
E se fosse il paesaggio il modello che meglio illustra la complessità del reale? Oggi lo si può leggere attraverso le formalità astratte della geometria qualitativa dell’anesatto, grafi e catastrofi, frattali e nodi; e le varietà della topologia (topos, il luogo appunto, in origine analysis situs) non ignorano la ricchezza della molteplicità sensoriale. Possiamo così trovare nuovi equilibri tra il mondo ed il luogo, tra il cosmo e il focolare, dare sostanza al sogno del Roland Barthes de La camera chiara (e di Calvino) di una mathesis singularis, una scienza del singolo oggetto. La modernità ha inseguito il suo paradigma nell’astronomia: nello spazio cosmico, contenitore uniforme, si disponeva il sistema del mondo, centrato o in espansione verso l’infinito.
E se fosse la geografia il nostro nuovo paradigma? La geografia in senso letterale, scrittura della terra su di sé, ricorda Serres: sono le cose stesse a lasciare impronte le une sulle altre, a scrivere sulle pagine del mondo, prima che lo facciano gli umani, i contadini su tutti. Trascinate dai torrenti e dal loro peso, le pietre incidono le rive e disegnano il fondovalle, il vento erode le coste, il ghiaccio spezza gli alberi: le cose disegnano il proprio intarsio sulla carne del mondo. Chi scrive? L’acqua, la neve, il granito, il sole, scrivono sul marmo, sulla flora e la fauna, riempiono la terra di rughe. Il paesaggio così disegnato forma orologi che misurano l’usura del tempo, s’ingombra di ricordi, colleziona monumenti, ed ogni luogo è portatore di memoria. La geografia precede la storia, ricordava Fernand Braudel, e la condiziona: la geografia, scienza dura delle cose dure, abita il tempo inteso come durata; la storia, successiva e leggera, comincia con la scrittura, incisione del dolce (soft) sul duro (hard), e apre l’epoca del Verbo/logos. Lo spazio euclideo e cartesiano, universo omogeneo della comunicazione, governato dalle leggi universali della scienza, si fonda sullo spazio topologico dell’abitante, habitat concreto dove si stringono relazioni di vicinanza, carico dell’esuberante ricchezza dei dettagli qualitativi.
La randonnée riconosce i luoghi e assembla i pagi, seguendo un cammino intricato, di svolte, pause e digressioni; il locale ha contorni indefiniti, la sua singolarità incontra frontiere e ostruzioni, punti di singolarità dove brulicano in folla narrazioni che portano memoria di passate circostanze. Le mappe tracciate da una ragione riconciliata, che sa connettere il globale al locale, conservano la topologia fine di luoghi molteplici, dove terre seminate, vigne, alberi da frutto si mescolano ai profili delle case. Un pensatore dalla cultura ibrida, Yi Fu Tuan, in cui le tradizioni della Cina antica convivono con la modernità degli Stati Uniti, invita a “sentirsi a casa nel cosmo”, a promuovere l’ideale di un focolare cosmopolita, di un universalismo saturo di differenze. La topophilia, l’amore per il luogo, riconcilia il chiaroscuro avvolgente della prossimità del familiare (sede di Hestia, la dea del focolare), e lo spazio potenzialmente illimitato, dai confini sfumati, su cui transita Ermes, il messaggero angelico.
Il cammino esodico attraverso il paesaggio richiede lo sguardo attento del camminatore che sa apprezzare le virtù della lentezza. Passata l’infanzia di lunghe camminate dove era il corpo intero ad immergersi nei luoghi, passata l’adolescenza in bicicletta dove allo sguardo si aprivano scorci ignoti, campi di grano e filari di gelsi, profili prealpini e visioni di borghi in collina, la mia generazione ha conosciuto il paesaggio dai sedili del treno e delle automobili. Dalla postazione stabile, che non richiede sudore né dispendio energetico, osserviamo immagini scorrere sullo schermo. Anche nelle vesti di turisti siamo entrati nel mondo della rappresentazione: di un paese conosciamo i frammenti conservati dalle foto scattate nei momenti di sosta del viaggio. Bergson ricordava che “mille fotografie di Parigi non sono Parigi”: l’esperienza di una passeggiata nella città non potrà mai venirci restituita dalla successione discontinua delle cartoline dei luoghi da cui siamo passati: la continuità del vagabondare è carica di tonalità affettive, la sua durata è arricchita di emozioni e fascinazioni estetiche. Percorrendo l’autostrada o sul treno ad alta velocità, concediamo un occhio distratto allo spettacolo del paesaggio, ma non è solo lo spazio che scorre di lato a divenire fuggitiva parvenza, è anche il presente (quello che la saggezza della lingua fa equivalente al dono) a fuggire via. O meglio, il presente viene sottratto alla continuità del tempo: «l’uomo curvo sulla sua motocicletta è tutto concentrato sull’attimo presente del suo volo; egli si aggrappa ad un frammento di tempo scisso dal passato come dal futuro […]; è fuori del tempo; in altre parole, è in uno stato di estasi; in tale stato non sa niente della sua età, niente di sua moglie, niente dei suoi figli, niente dei suoi guai, e di conseguenza non ha paura, poiché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere. La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo». Quando l’uomo delega il potere di produrre velocità a una macchina, il suo corpo è fuori gioco, la velocità a cui si abbandona si fa immateriale: si produce così uno «strano connubio: la fredda impersonalità della tecnica e il fuoco dell’estasi» (Milan Kundera).
Per guadagnare tempo e giungere alla meta, dobbiamo tralasciare quel che resta ai margini del cammino, della vita diritta e diretta che abbiamo scelto. Nella guerra contro il tempo, i vincitori non sanno quello che perdono. Così, quando entriamo in una foresta o in un bosco, non è solo la vastità dello spazio e la difficoltà di trovare riferimenti a turbarci, è anche l’esperienza di una durata che non si misura sulle clessidre delle nostre esistenze. «Le foreste portano la firma del tempo e dell’eternità», ha scritto Holmes Rolston III, uno dei massimi interpreti dell’etica ambientale statunitense; esse consentono d’incontrare un tempo grandioso, un passato (pre)storico, di valutare su di una scala che non ha rapporto (ratio, appunto) con le nostre abitudini e pratiche. È l’esperienza della lunga durata, non quella della storia, ma quella del tempo della vita sulla Terra: “a memoria di rosa, non è mai morto un giardiniere” (Fontenelle). Milioni di anni sono stati necessari al cammino evolutivo per organizzare il complesso ecosistema che consente agli alberi di stringere “contratti naturali” con i capricci dei venti ed il variare delle stagioni, di trovare accordi di reciproco vantaggio con gli insetti ed altri animali, di coabitare nella reciproca tolleranza, nella temperanza, come diciamo di certi climi.
Una foresta è un museo della storia del mondo: gli alberi sono le statue scolpite da un tempo ancestrale ed incantato, un bosco porta dentro di sé il senso del fiorire della vita. Siamo usciti dalla foreste, ricordava Vico, ma non abbiamo smesso di perpetuare il sogno originario di Gilgamesh, distruggere le foreste per strappare alla natura il segreto della rinascita. Gli alberi evocano la genesi persistente della vita fra le tracce del suo de-perire, l’emergere fugace della bellezza sopra il caos e nell’informe. Ma l’esperienza estetica che possiamo vivere camminando in un bosco è prossima più al sublime che non alla bellezza in senso kantiano. Non siamo spettatori immobili che osservano, a distanza, quadri incorniciati appesi alle pareti; gli oggetti non sono messi in posa, in scena, per coglierne l’identità, l’essenza definita nell’istante che si vuole eterno. Vagando in un bosco, l’intero corpo partecipa ad un’esperienza multisensoriale, non solo visiva; l’intelligenza corporea ci offre sensazioni cinestetiche, avvertiamo i muscoli in azione, ci coordiniamo nello spazio, siamo sensibili al passaggio dall’ombra al sole della radura. A differenza del motociclista, l’uomo che cammina o corre a piedi è sempre presente al proprio corpo, notava Kundera; è costretto a pensare continuamente alle vesciche, all’affanno, avverte il proprio peso e la propria età, ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita.
L’ingresso nella foresta risveglia l’emozione originaria di fronte alla wilderness, alle forze grandiose e selvagge: spettacolo spaventoso e attraente, numinoso e tremendo, esperienza primordiale del sacro, nei boschi e fra gli alberi ebbero sede i primi dei, e le cattedrali non faranno che riprodurne l’architettura. Ed anche ora che gli dei hanno abbandonato la terra, che la scienza ha prodotto il disincanto del mondo, il bosco conserva il suo fascino perturbante e il suo alone di mistero: siamo in grado di spiegare i processi complessi che presiedono alla biochimica dell’ecosistema forestale, ma questo non cancella il senso di una religione senza trascendenza, la religio che ristabilisce i legami del nostro essere con il tutto, che riconnette, nel senso di Bateson, la nostra esistenza a quella dell’intera biosfera. Nell’esperienza di inoltrarsi nella foresta, lo spirito rousseauiano di Henry David Thoreau riscopriva i tempi lenti della natura selvaggia, ritrovava il senso di una continuità di vita per la quale la nostra memoria scritta non dispone di segni. Tanto più intensa la memoria quanto più ci affidiamo alla lentezza: la velocità si paga con l’oblio, quando cerchiamo di recuperare un ricordo sfuggente, la saggezza del corpo ci induce a rallentare. Il tempo del camminatore scopre i vantaggi del pensiero che asseconda il ritmo naturale di quella macchina lenta che è il nostro cervello. Un’altra vergogna prometeica ci riempie di frustrazione per l’incapacità di emulare la velocità degli strumenti digitali, di quella tecnologia soft della comunicazione che si fonda sulla leggerezza dei bit senza peso; ogni ramo della scienza, diceva Calvino, sembra dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime, i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall'inizio dei tempi..., materialismo informatizzato che rinnova l’atomismo antico.
Kundera lamentava la scomparsa di quegli eroi delle canzoni popolari che se ne andavano a zonzo e dormivano sotto le stelle; con loro, sono scomparsi i sentieri nei campi, i prati e le radure, in una parola la natura stessa. Un proverbio ceco definiva il loro vagabondare ozioso con la metafora «contemplare le finestre del buon Dio»: felicità concessa a chi sa apprezzare il piacere della lentezza.
Nelle future Lezioni americane, dopo la leggerezza, non potremmo assegnare un posto alla lentezza invece che alla rapidità?
Per approfondire:
- Milan Kundera, La lentezza, Adelphi, 1995
- Harrison Robert Pogue, Foreste, Garzanti, 1999
- Holmes Rolston III, “L’esperienza estetica delle foreste”, in La bellezza di Gaia, a cura di R. Peverelli, Medusa, 2007
- Michel Serres, Passaggio a Nord-Ovest, Pratiche, 1985
- Michel Serres, “Metodo e randonnée”, da Les cinq sens, Grasset, 1985 (traduzione in Riga 35, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Marcos y Marcos, 2015)
- Michel Serres, Préface, Des ensembles à la singularité, in Paysages des Sciences, Le Pommier, 1999 (traduzione in Riga, op. cit.)
- Michel Serres, Il mancino zoppo, Bollati Boringhieri, 2016
- Yi Fu Tuan, Il cosmo e il focolare, Eleuthera, 1996