Una mattina di un torrido giorno dell’ultima estate mio figlio di 4 anni mi ha fatto la domanda che speravo non mi facesse mai. Temuta, elusa, rinviata per settimane. Sapevo sarebbe successo. “Papà, ma tu che lavoro fai?”. Una vampa, una breve apnea, prendo tempo per costruire un discorso sensato, ma la prima risposta che mi esce è quella standard. “Faccio il consulente per la sostenibilità delle imprese e delle grandi organizzazioni”. Mi guarda con gli stessi occhi di Carlo, il pesce rosso arrivato dal futuro che rotea se stesso e i suoi occhi nella boccia sullo scaffale della libreria del soggiorno. (Scopri di più su: http://www.avanzi.org/impresa-sociale/la-csr-spiegata-a-un-bambino)

“Che lavoro fai” è una delle domande che temo di più. Non dite a mia madre che faccio il consulente, lei mi crede pianista in un bordello. Quando il barbiere, o un qualunque interlocutore che fa del discorso forzato parte della propria professione arriva alla questione, di solito evado: a volte consulente (- “Consulente finanziario?” – “Esatto” – “Certo che questa crisi…”), a volte mi occupo di comunicazione (- “Giornalista?” – “Esatto”), una volta sono stato ingegnere ambientale, rischiando grosso perché anche il mio interlocutore lo era e ho pregato non mi chiedesse nulla sull’estimo o la tecnologia dei materiali. Più spesso impiegato, che oltre ad essere tecnicamente vero, è quella professione che riporta all’immaginario collettivo del ragionier Ugo Fantozzi e concede all’interlocutore trenta secondi di superiorità intellettuale. Quando ho rinnovato la carta d’identità, un paio d’anni fa, la signora dell’anagrafe mi chiede: “Che lavoro fai?”, ed io, come al solito tentennando, rispondo “consulente”, lei annuisce, mi stupisce, abbassa la testa sul computer, registra. Mi consegna la carta d’identità, la apro, controllo: Professione: studente. Aveva sentito male. L’ho tenuta così.

Ebbene sì, faccio il consulente. Colui che suggerisce, aiuta a costruire, quando è ispirato mostra percorsi nascosti, viene pagato per esprimere un’opinione (di solito circostanziata, motivata e garantita da basi metodologiche). Bene, questa era la parte facile. Consulente di sostenibilità. Figlio mio, la sostenibilità è quella cosa che è talmente naturale e semplice che è impossibile da spiegare. Come l’amore, come la gioia. E’ una questione di buon senso. Agire assumendosi le responsabilità delle proprie azioni e delle relative conseguenze, di fronte a se stessi e di fronte alle persone che ti stanno intorno e che in qualche modo contribuiscono alla tua vita (sarebbero gli stakeholder, ma l’ho fatta breve). Sostenibilità, come il sustain della chitarra: capace di durare nel tempo, capace di futuro (“capace di futuro”, per me una delle definizioni più belle in assoluto). E qui mi aspetto che tu mi chieda “Papà, perché qualcuno ha bisogno di un consigliere per comportarsi bene?”. Ma non me lo chiedi grazie al cielo.

Consulente di sostenibilità delle imprese e delle grandi organizzazioni. Qui vengono i casini. Significa, caro mio, che per natura – o per cultura, per il contesto in cui si muovono – alcuni soggetti sono portati a non concepire la redistribuzione (del valore, della ricchezza, delle opportunità, eccetera) come elemento fondante del contratto civico. Significa che il profitto (più che il valore) è ancora saldamente al centro dell’agire economico. Ma la Costituzione, il patto che ognuno di noi sottoscrive quando decide di vivere in una società organizzata, dice chiaramente che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. In fondo tutte le categorie che applichiamo alle imprese non sono altro che categorie umane: la fiducia rappresenta un elemento di sintesi costruito con il fare quotidiano e mediante processi di coerenza, coinvolgimento e trasparenza. E’ una condizione intrinseca a qualsiasi relazione, che opera laddove vi sia un insieme noto di principi e regole, una sorta di patto sottoscritto (anche se in via informale) da entrambe le parti.

Lo scambio tra soggetti (ovvero, nel caso dei miei feriali, tra impresa e stakeholder) genera significati, simbolici e tangibili. Insomma, ogni organizzazione, così come ogni persona, è un nodo di una rete, e costruisce e al contempo cede parti di sé agli interlocutori di riferimento in un flusso di scambio continuo. Ma questo, molte organizzazioni non lo capiscono. E in un certo senso, con le cosiddette “iniziative di CSR” non fanno altro che giustificare (nel senso etimologico, ma anche nel senso letterale) ed alimentare le storture del capitalismo (e nel peggiore dei casi, darsi una sciacquatina alla faccia). No, il mio lavoro non ha a che fare con il rispetto delle leggi dello Stato, forse in parte con quelle del mercato. Il mio lavoro ha a che fare con le le leggi non scritte della comunità, con la sua cultura e i suoi valori. Qualcuno le ha chiamate “organizzazioni coesive”, perché favoriscono l’inclusione attraverso la relazionalità e la partecipazione. Qualcuno le ha chiamate “organizzazioni collaborative” perché creano valore attraverso la relazione (e non semplicemente estraggono quel valore, come usano fare buona parte dei giganti della sharing economy”). Insomma, il mio lavoro è quello di aiutare le organizzazioni a recepire il cambiamento e – per quanto possibile – a lavorare per il bene comune. Che poi non è molto diverso dal lavoro del pianista nel bordello. Questo è il lavoro di papà. Il panettiere fa il pane, il pizzaiolo fa le pizze, il papà fa un lavoro che non dovrebbe esistere e che è incomprensibile ai più, e in particolare ai bambini, più vicini alle cose di natura. E che sono certo tu non abbia capito. Pietro? Stai dormendo?

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