Comincio a scrivere questo articolo con nella mente e negli occhi l’articolo della mia amica Marta Manieri che in un post su Che Futuro, che potete leggere
qui, scrive di come un semplice episodio, l’osservazione di come funziona un negozio sotto casa, sia riuscita a “mettere in fila sensazioni, letture, incontri, e tutto si sbroglia improvvisamente” aiutandola, come d’incanto, a uscire dalle secche della dicotomia sharing di mercato, poco collaborativa, e sharing sociale, poco sostenibile, (confesso di aver avuto anch’io una simile epifania dopo un social eating nel cuore di Bari vecchia). (Scopri di più su:
http://www.glistatigenerali.com/sharing-economy/impatto-sharing/)
Il punto, sostiene Marta, è che siamo sull’uscio di una distruttiva normalità, per citare Ezio Manzini, un cambio di paradigma culturale che “si esprime nel modello a piattaforma che l’economia collaborativa promuove. Un modello aperto perché prevede una piattaforma che abilita e non più un ente che eroghi servizi e prodotti; comunitario, perché ognuno mettendo in condivisione produce valore per l’altro; inclusivo perché più si è, meglio è; reputazionale, perché la fiducia è la nuova moneta che muove le relazioni “(cit.)
Che l’economia sharing sia al tempo stesso la causa e il risultato di poderosi smottamenti culturali, economici, sociali è difficile negarlo (crisi economica post 2008, vincolo ambientale, diffusione smartphone ecc ecc); com’è altrettanto difficile negare l’efficacia del modello (di business) piattaforma, quello che John Hagel definisce del network orchestrator, e che accomuna tutte le grandi piattaforme online (a cominciare dalla cosiddetta Gafanomics, Google, Apple, Amazon e Facebook per arrivare ai nuovi unicorni della Silicon Valley, Uber, Airbnb ecc ecc). Una superiorità che si manifesta in primo luogo nella sua capacità di aggredire le inefficienze del sistema, prima di tutto quella informativa, trasformando un’inefficienza appunto in un vantaggio competitivo.
In quest’ottica più che valutare cosa sia sharing o cosa non lo sia in teoria (sebbene la confusione concettuale e terminologica sotto il cielo sia molta), è forse più utile valutare, a valle del processo produttivo e di consumo, l’impatto di queste pratiche sulle nostre vite.
Più che sharing di mercato e sharing sociale per capire dove andrà l’economia della condivisione la dicotomia che varrebbe la pena approfondire è tra ciò che produce impatto positivo in termini di beni relazionali e ciò che non lo produce. E adoperarsi per stabilire criteri, metriche e indicatori che traccino, misurino, calcolino gli impatti. Il tutto con la consapevolezza di non stare affrontando una semplice questione tecnica, ma di avere a che fare con un tema profondamente politico, almeno nel senso più alto del termine di ciò che afferisce alla comunità.
Da questo punto di vista il tema ma anche il criterio con cui orientarsi nel mare magnum dell’economia sharing, è dunque, quello dell’impatto: la conseguenza sulla pelle nuda della società delle pratiche di intermediazione online e disintermediazione offline, la loro rendicontazione nel bilancio netto della comunità.
Inutile dire che questi saranno esattamente gli argomenti di cui si dibatterà a
Sharitaly, il 15-16 novembre a Base Milano, e che sarebbe naive immaginare di risolvere in un articolo, ma a cui si impone una doverosa precisazione: il tema dell’impatto non può essere separato da quello della Governance delle piattaforme e dei nuovi meccanismi di creazione del valore, e quello della regolazione. Il tutto avendo presente che circostanze e situazioni inedite esigono risposte e protocolli nuovi, che sappiano ibridare modelli di pensiero e forme mentis costruiti sulla base di paesaggi sociali e produttivi novecenteschi. Senza dimenticare quella “promessa di felicità” che la sharing economy ci aveva fatto balenare di fronte agli occhi non più di qualche anno or sono: Sharing is Caring.