Per festeggiare il centenario della nascita di Natalia Ginzburg, nata a Palermo il 14 luglio 1916, pubblichiamo alcuni articoli apparsi sulle pagine dei quotidiani e non ancora riproposti nelle raccolte dei suoi saggi, introdotti da Maria Rizzarelli. (Scopri di più su:
http://www.doppiozero.com/materiali/la-qualita-della-vita)
Posta di fronte alle urgenze della cronaca o ai casi giudiziari più complessi, Natalia Ginzburg ha tentato, sempre, di scioglierne le trame aggrovigliate, facendo chiarezza, provando a ricostruire dentro di sé la fisionomia dei fatti e degli attori coinvolti (Le vittime di Lucca, «La Stampa», 11 gennaio 1984). Una volta convinta dell’innocenza di qualcuno, non ha esitato a prendere posizione in sua difesa: ora urlando i suoi dubbi sulla sentenza di condanna di Panzieri (Dubbio su una sentenza, «Corriere della Sera», 10 marzo 1977), ora vedendo «offesa la verità» (Un antico sdegno, «La Stampa», 21 novembre 1971) nella persona di Valpreda, ora riconoscendo all’indomani della prima sentenza di condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani «l’accento della verità e dell’innocenza» risonante, «limpido e cristallino» (L’errore, «Il Manifesto», 15 febbraio 1997) nelle parole di Sofri, fino a schierarsi apertamente a favore dei coniugi Giubergia nel caso di Serena Cruz (Serena Cruz o la vera giustizia, Einaudi, 1990).
Il caso Moro la spinge a tratteggiare lo scenario politico dell’Italia degli anni ’70 su cui si muove il suo sguardo, che rivendica la legittimità di una visione “non politica”, priva cioè – secondo lei – della lucida analisi dei fatti, delle loro «origini», delle loro «ragioni» e del loro «fine», e affidata invece alle sensazioni e alle loro scie (La qualità della vita, «La Stampa», 5 Maggio 1978, qui di seguito riprodotto). Non esitando a stare dalla parte degli scrittori che provano a prendere la parola di fronte a un orizzonte desolato e cupo come quello che precede di qualche giorno il ritrovamento del corpo del presidente della DC nel portabagagli della Renault 4, in poche pagine tratteggia la radiografia di un decennio toccando i nodi cruciali della crisi profonda della nostra società. Invita a considerare un linguaggio alternativo a quello della “politica”, che parli con le ragioni del corpo, che torni alla radice delle cose, che ascolti odori e colori, ma che solo apparentemente si ponga rispetto a essi in una condizione di ingenuità: il rosso delle BR è in realtà un nero che rimanda ad altre bandiere ed altri simboli. Il cortocircuito di immagini segue la scia della «storia cadaverica d’Italia» (prendo in prestito il titolo, particolarmente efficace in questo contesto, della
trilogia di pièce di Daniele Timpano), in cui però Ginzburg sottolinea la profonda discontinuità semantica nella rappresentazione dei morti ammazzati nel corso dei decenni precedenti.
A differenza di Sciascia, nonostante si interroghi e provi ad immaginare la situazione di reclusione da cui nascono le lettere di Moro, la scrittrice riesce a posare lo sguardo soltanto all’esterno dello spazio della prigionia; eppure l’oscurità della cella si proietta anche al di fuori, in un orizzonte buio e opaco, «senza luce e senza gloria». Sull’
«equivalenza narrativa oscurità: terrorismo» si è già scritto, ma è interessante che Ginzburg aggiunga il suo personale contributo con una manciata di parole che ribaltano il senso tragico dello scenario rappresentato e aprono una breccia nel deserto e nella desolazione di quegli anni. La parola «gloria» così desueta, seppur menzionata per la sua assenza, «il roseo arabesco», evocato fra le righe come lo stigma di un diritto al pensiero utopico anche nelle circostanze più tragiche, anticipano di poco la conclusione per nulla rassegnata dell’articolo. La correlazione fra terrorismo e Resistenza, che Bellocchio riprende in Buongiorno, notte (2003) – chissà se non si tratti anche di una reminiscenza involontaria di questo articolo – suona in questo contesto come un richiamo capace pure oggi di far pensare al futuro e di spazzare via «per un attimo, l’intero scenario del nostro presente».
La qualità della vita
Esistono due maniere di guardare il mondo, una maniera politica e una maniera non politica. Io non penso che una sia migliore dell'altra, penso che siano entrambe legittime, purché usate con onestà. I politici vedono, in ogni fatto pubblico, le origini, le ragioni e il fine, i non politici non vi vedono nulla, hanno delle sensazioni e le inseguono. Penso che in un giusto Stato, i politici e i non politici dovrebbero vivere mescolati insieme, completandosi vicendevolmente, e dovrebbero poter parlare il medesimo linguaggio. Accade invece che il linguaggio dei politici, alle orecchie dei non politici suoni quasi sempre incomprensibile. Poiché il mondo oggi è fortemente politicizzato, i non politici sono una sparuta minoranza. Vorrei dire ciò che oggi alcuni di essi provano, essendo io fra loro. I non politici hanno orrore delle Brigate rosse, delle P. 38, del sangue, della violenza civile. Nelle Brigate rosse, gli fa orrore non soltanto il fatto che spargono sangue, ma anche il fatto che seguono un percorso di trame nascoste, invisibili e sotterranee. Gli sembra che da un simile fitto e complesso intrico di trame salga un odore immondo e funerario, che ricorda le Esse Esse, i campi di sterminio nazisti e le stragi degli ebrei. Nelle Brigate rosse, essi sentono la presenza non di una volontà devastatrice allucinata e disperata, ma di una volontà devastatrice calma, lucida, posata, seduta a un tavolo, lucidamente e pacatamente determinata a degradare e umiliare, negli uomini, la qualità della vita. Necessario è non lasciarsi ingannare dalla parola «rosso», perché il loro colore è in verità il nero. Essi, i non politici, come anche certo alcuni fra i politici, pensano che vi sia un solo e unico modo di far fronte alle Brigate rosse, cercare di mantenere alta e viva nell'animo, finché sia possibile e per quanto ciò sia possibile, la qualità della vita. Degradare e umiliare la qualità della vita, significa spogliare di ogni reale valore e pregio sia la vita, sia la morte. Significa rivolgere alla vita delle richieste minime e miserabili, e rivolgere alla morte uno sguardo spento e vuoto. Senza luce e senza gloria le richieste indirizzate alla vita, senza luce e senza gloria lo sguardo indirizzato alla morte. Significa ritenere che alcuni beni umani, come la rettitudine, l'onestà, la misericordia, il coraggio, la fedeltà al proprio simile, la fedeltà alla propria parola e al proprio pensiero, debbano essere cancellati dalla terra e non ne rimanga memoria. Nello scenario uniforme e deserto che si offre oggi ai nostri occhi, nulla riusciamo a scorgere se non rottami e rifiuti. Ciò che più ci colpisce, in un simile scenario, non è il gelo o la desolazione, ma una sterminata, arida, monotona, uniforme assenza di gloria. Tale assenza di gloria proviene dall'assenza di un'idea che conduca in direzione del futuro.
Le numerose lettere che scrive Aldo Moro dal fondo del suo carcere ci ispirano gran pietà. Una tale pietà è però anch'essa opaca, spenta e deserta come il suolo che si stende davanti a noi. Non sappiamo e non siamo in grado d'immaginare in quali condizioni siano scritte, e tutto quello che sappiamo è che lo scenario intorno a noi è abbietto e miserabile, ciò che di più abbietto e miserabile i nostri occhi abbiano mai visto. I non politici, riguardo all'appello del Papa per Aldo Moro, pensano che sia stato un giusto appello, e non trovano affatto strano che si sia messo in ginocchio, perché un papa è giusto che si metta in ginocchio, e anzi questa è in un papa un'attitudine naturale. Si chiedono però perché non si sia messo in ginocchio per la povera Cristina Mazzotti, in quell'orrenda estate in cui non se ne sapeva più nulla, o perché non si metta in ginocchio per gli altri che sono stati rapiti e non tornano, essendo gli uomini tutti uguali dinanzi a Dio. Non trovano niente giusto il discorso del giorno dopo, quando egli ha dato rilievo all'alta statura culturale di Aldo Moro, perché dinanzi a Dio non vale nulla l'esito pubblico, la pubblica statura dell'uomo. Ci sembra che la fine della povera Cristina Mazzotti, il suo corpo ritrovato in un cumulo di rottami e rifiuti, abbia degradato e umiliato in tutti la qualità della vita. Ci sembra che si sia spalancato allora, dinanzi ai nostri occhi, in modo chiaro, lo scenario deserto al quale i nostri occhi si sarebbero più tardi, con orrore, avvezzati. Ma esso era aperto per noi in precedenza e l'avevamo individuato e scorto altre volte, se pure in forma indistinta e confusa. È forse inutile enumerare le circostanze in cui ci siamo accorti che veniva degradata e umiliata la qualità della vita dentro di noi. Quando è stato sparato in viso a Casalegno sulla porta di casa sua, quando sono stati ammazzati i cinque della scorta in via Fani, quando sono apparse sui giornali le prime fotografie di Aldo Moro, il muro alle sue spalle, il deserto d'una stanza a noi ignota, o quando è stato ricattato lo Stato, abbiamo provato una sensazione non solo di strazio ma di umiliazione collettiva, che investiva tutti da vicino e da lontano, senza lasciare un solo essere indenne.
Al tempo delle stragi degli ebrei, quando morivano o venivano incarcerati insieme politici e non politici, consapevoli e inconsapevoli, la qualità della vita era degradata e umiliata universalmente. Però la qualità della vita è stata degradata e umiliata ancora in mille altre circostanze meno vistose, per esempio nelle morti bianche dentro le fabbriche, o nel lavoro nero delle donne, e se noi non ci siamo accorti che il nostro scenario lentamente si deturpava, è stato per nostra incoscienza di tutti quanti siamo, politici e non politici, e per nostra generale ottusità. In quelle circostanze non vistose, le Brigate rosse non c'entravano, e semplicemente il suolo era pronto per i loro binari sotterranei, il paesaggio era pronto per ospitarli, così come nella Germania nazista tutto era in precedenza pronto per effettuare le stragi. Così ci siamo visti a un tratto circondati di uno scenario deserto, uniforme, dotato di una nuda e abbietta mediocrità, nel quale appare estremamente difficile formulare dei pensieri, custodire dei sentimenti, salvare qualcosa che non sia devastato e che non si pieghi alla devastazione. I non politici, come anche alcuni fra i politici, desiderano un mondo nuovo e migliore. L'idea d'un mondo nuovo e migliore, nella loro testa di non politici, è un'idea quanto mai vaga, rozza e confusa. Disegnandolo ben rozzamente, questo mondo migliore, essi hanno però un pensiero preciso, o anzi una speranza precisa, che sia là tenuta alta al di sopra di tutto la qualità della vita. Le vecchie parole della Rivoluzione francese, libertà, uguaglianza, fraternità, essi le vorrebbero finalmente, nel futuro, attuate. Le vorrebbero attuate senza versare una sola stilla di sangue, sia perché il mondo è stanco di stragi, sia perché la violenza mette orrore, sia perché essa annienta ogni idea sul nascere, creando immediatamente quello scenario immondo e mediocre, deserto di idee, livido e senza luce di gloria, che vediamo ora qui.
Pensare a un mondo nuovo e migliore, avendo intorno a noi questo scenario, può sembrare roseo ottimismo, un inutile e roseo arabesco tracciato nel vuoto. In verità però la fede nel futuro può nascere nel cuore del pessimismo più cupo. Essa può essere illogica, incoerente, utopistica. «L'utopista – ha scritto Nicola Chiaramonte – ritiene che l'essenziale dell'uomo è ciò che non sta in nessun luogo, fuorché nella mente dell'uomo medesimo. L'utopista crede, cioè, nella realtà irriducibile dei pensieri, delle aspirazioni, degli affetti, delle immagini in cui si esprime il rapporto fra l'uomo e la realtà delle cose». Alle Brigate rosse, allo scenario infernale che ci sta davanti, la risposta di tutti dovrebbe essere continuare ostinatamente a disegnare e a costruire, nell'onestà, l'idea d'un mondo nuovo e migliore, per quanto remota, irraggiungibile, impossibile essa appaia nella presente realtà devastata. Un simile mondo dovrebbe essere l'esatto contrario del mondo che si offre oggi al nostro sguardo. Dovrebbe esservi accesa di luce, in ognuno, sia l'idea della vita sia l'idea della morte. Per sentire ricondotta in alto la qualità della vita, a noi singoli basta poco, ed è colpa nostra se non siamo in grado di tenerla alta dentro di noi a lungo, e subito ci troviamo di nuovo caduti nell'abituale umiliazione. Ad alcuni di noi, è bastato, nei giorni scorsi, rileggere le parole, che non so quale giornale ha riportato, dell'ultima lettera di Guglielmo Jervis, morto nella Resistenza. «Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un'idea». Vorremmo anche noi, nel momento della morte, riuscire a rivolgere gli occhi a un futuro alto e ignoto, e non sappiamo se ci riuscirà, essendo le forze del male così imprevedibili e così sottili, e la natura umana così fragile, così imprevedibile, e così pietosa. «Muoio per aver servito un'idea» egli dice, e a noi sembra che sia proprio questo di cui oggi la gente ha una sete disperata, il servire un'idea, cioè il custodirla dentro di noi e offrirla in regalo agli altri. Benché egli ci chieda di non piangerlo, non riusciamo a rileggere quelle sue parole senza lagrime, e senza sentire spazzato via di colpo, per un attimo, l’intero scenario del nostro presente.