«Vuoi che vengano gli immigrati? Perché non li porti a casa tua?». La risposta che noi speriamo di generare è «Sì, va bene». È tutta qui la sfida che
Vesta (progetto realizzato a Bologna dalla Cooperativa Camelot) ha deciso di raccogliere, in sinergia con l’Amministrazione Comunale. Rispondere a quello che viene percepito - a torto - come un fenomeno transitorio inserendolo dentro l’unica dimensione che ne può affrontare la complessità quotidiana: le relazioni all’interno del contesto abitativo. (Scopri di più su:
http://www.ladige.it/blogs/impact-blog/2016/08/16/accogliere-attivazione-comunitaria-welfare-generativo-piattaforme)
Ecco che allora - mentre abbiamo negli occhi le migliaia di persone accalcate alle frontiere chiuse dell’Europa e davanti alle stazioni ferroviarie delle città italiane - da Bologna arriva non solo una buona pratica di accoglienza, ma un forte segnale di vitalità del terzo settore. Applicazione delle tecnologie all’attività sociale, assunzione del welfare generativo come obiettivo necessario, valorizzazione delle reti di prossimità e consapevolezza della necessità di un cambio di passo del movimento cooperativo.
Tutto questo - e molto altro - è Vesta. Ne abbiamo parlato con Carlo De Los Rios, direttore di Camelot.
Per cominciare ad addentrarci nel progetto dobbiamo necessariamente passare per la lettura del contesto dentro il quale nasce. Come nasce la Cooperativa Camelot e quali sono le principali attività che svolge?
Camelot nasce nel 1999. È una cooperativa che affianca le istituzioni e le comunità per dare nuove risposte ai problemi sociali emergenti. Ci siamo occupati di accoglienza, di protezione e di integrazione di richiedenti asilo, di mediazione interculturale e sociale, di interventi per la coesione sociale e per la riqualificazione di contesti urbani, di attivazione di processi partecipativi con la cittadinanza, di gestire servizi informativi per cittadini stranieri e cittadini italiani in stato di marginalità sociale. Un altro settore si occupa di politiche giovanili e uno è destinatoall’inserimento lavorativo di persone svantaggiate nei settori della ristorazione e del ripristino del verde pubblico.
Un impianto cooperativo classico il vostro. Bologna - come moltissimi altri territori italiani ed europei - è chiamata in questi mesi a mettere alla prova le proprie capacità di accoglienza. Non essendo certo il fenomeno migratorio caratteristica emergenziale (dobbiamo aspettarci che abbia caratteristiche epocali nei prossimi decenni), sembra che si cominci a capire che non è più sufficiente governare - laddove lo si possa davvero fare - i flussi, ma che si debbano utilizzare nuovi paradigmi per sviluppare processi virtuosi dentro le comunità. Come reagisce la comunità a queste nuove sollecitazioni e quali sono le caratteristiche di questo nuovo sguardo nei confronti dei fenomeni migratori?
Tentiamo di analizzare la reazione della comunità ogni giorno. È certamente una reazione complessa e non è facile da affrontare. È una reazione che normalmente - senza mediazioni - viene molto «dalla pancia». È una percezione di paura, di un’invasione, sentimenti sui quali alcuni costruiscono azioni di speculazione politica. Il tentativo che noi facciamo, ovviamente con impostazione da operatori e da tecnici e non da politici, è quello di provare ad andare oltre, provare a evitare che tra vent’anni o trent’anni si verifichino nei nostri territori gli stessi fenomeni di emarginazione che in Francia oggi sono visibili in maniera molto evidente. Fenomeni di esclusione figli di politiche decennali sul campo dell’immigrazione da parte del governo francese. Vesta si muove tentando di evitare questa deriva.
Dicci di Vesta? Spiegacene i contorni.
Vesta prova a pensare - anche - a un’accoglienza che entri dentro il tessuto relazionale delle famiglie italiane. Famiglia per quanto ci riguarda è un concetto che va letto nella sua accezione più ampia. Quindi è una famiglia quella composta da una persona, da due persone dello stesso sesso, da due persone di sesso diverso. È famiglia chiunque voglia aprire la porta di casa per accogliere, dando vita a un nuovo step nell’inserimento all’interno della nostra società di persone costrette a migrare a causa di una guerra, di un’epidemia o dell’insostenibilità ambientale del luogo in cui viveva.
C’è un momento che ricordi come decisivo per la nascita del progetto?
Tutto nasce da una dichiarazione del Ministro degli Interni Angelino Alfano che diceva: “Dobbiamo aprire all’accoglienza in famiglia dei rifugiati.” In realtà il concetto era riferito alla necessità di arginare il ruolo delle cooperative che - nella visione del Ministro -sull’accoglienza lucravano. Sintetizzando, l’idea di Alfano era “dobbiamo dare dei soldi alle famiglie italiane, ridistribuendo questa ricchezza che stanno drenando le cooperative”. La nostra prima reazione è stata un po’ indispettita, rivendicando la professionalità acquisita e lo svolgimento del lavoro secondo i criteri di qualità migliori possibili. Siamo convinti anche noi che esistano realtà dell’accoglienza che non funzionano o funzionano male, ma eravamo stupiti da una sparata di questo tipo che faceva di tutta l’erba un fascio.
Come ha reagito la Cooperativa Camelot, già impegnata in precedenza nel progetto SPRAR (progetto dentro il quale si inserisce anche Vesta) per adeguare il proprio intervento?
Dopo la prima reazione ci siamo messi a ragionare. Vedevamo un fenomeno in cambiamento, un fenomeno definito emergenziale dal 2010 con l’aumentare dei flussi dal Nord Africa. Siamo nel 2016 e dopo sei anni ancora ci definiamo in emergenza. Un’emergenza insomma che non sembra mai arrivare a conclusione. Fa sorridere se non fosse il sintomo di una mancanza di organizzazione profonda, che nasce anche dalla scelta del Ministero di utilizzare diversi canali di finanziamento per percorsi che coinvolgono però le stesse persone.
La nostra idea è stata quella di interrogarci sulla possibilità che una città italiana (Bologna) che è fondata sulla famiglia e sui valori relazionali potesse sfruttare questa sua caratteristica per creare un modello di accoglienza differente. Un modello che valorizzasse i rapporti di comunità senza perdere nulla della professionalità dell’intervento.
Come vi siete mossi?
Abbiamo cominciato a capire quali parti potessero essere tolte al ruolo della cooperativa e affidate a una famiglia e quali invece era importante che rimanessero in capo agli operatoti di Camelot. Abbiamo compreso che era indispensabile mantenere la tutela legale, quella psicologica, il tutoraggio lavorativo. Poi ci siamo interrogati rispetto a quali persone potessero essere introdotte in famiglie. Perché in primis il percorso deve essere sicuro per le famiglie e per i ragazzi che vengono inseriti, deve essere un’opportunità in più.
Non lo abbiamo pensato per persone in prima accoglienza, ma già arrivate in una seconda o in una terza fase. Quindi è un progetto dedicato a chi sa spiegarsi in italiano con un discreto livello e ha un impegno lavorativo di una certa portata. L’idea di base è quella di mettere insieme le risorse di un pezzo di città importante - che è intenzionata ad affrontare questo tema con una certa mentalità - e proviamo a far sì che sia un moltiplicatore di possibilità per la riuscita di buoni processi d’integrazione.
«Gli immigrati ci servono». «Pagano le nostre pensioni». Questi sono solo due delle frasi che vengono usate spesso per riferirsi ai lati positivi dei fenomeni migratori. Vesta non sembra accodarsi a un approccio di valutazione economica ma d’impatto sociale connesso all’affermarsi di comunità meticce e accoglienti. Qual è l’impatto sociale che vi proponete di offrire alla comunità?
L’impatto sociale sta tutto nel modificare la risposta a una domanda ricorrente. «Vuoi che vengano gli immigrati? Perché non li porti a casa tua?». La risposta che noi speriamo di generare è «Sì, va bene». Sono io cittadino, sono io persona che ho accettato questa sfida e questo esperimento che racconto che cosa vuol dire veramente essere una persona che sta scappando dalla Siria, dalla Costa d’Avorio piuttosto che dalla Nigeria e da Boko Haram. Non è più - solo - il ruolo dell’Assessore, del tecnico della cooperativa ma iniziano a farlo anche i cittadini che sono protagonisti di questo nuovo approccio. Sono cittadini normali, che certamente possiedono un certo livello di sensibilità, che sanno dire ai loro vicini di condominio cosa significa migrare.
Non mi piace l’argomentazione legata all’utilità («meno male che ci sono») rispetto alle prospettive economiche e pensionistiche del nostro Paese. Numericamente può essere sicuramente vera, ma ho seri dubbi che sia una tema convincente per chi si sente in pericolo. Preferisco il lavoro lento e graduale di conoscenza che sappia entrare dentro il tessuto della società.
Sembra evidente che in Europa si stanno scontrando - non solo sul tema dell’immigrazione - due modi opposti di intendere questa fase storica. Chi vorrebbe rinforzare i controlli ai confini da un lato (un modello difensivo) e chi immagina invece la possibilità di condividere con chi arriva - o in verità anche con chi in Europa ormai vive da anni - una parte del proprio percorso di vita e anche dei propri beni materiali. È superfluo dire che le famiglie che partecipano al progetto si inseriscono in questa seconda categoria. Si parla con insistenza di welfare generativo. Ma cosa significa davvero?
Parto da un concetto. A noi non piace lavorare da soli. Ci piace lavorare con le istituzioni, così come ci piace lavorare con le altre realtà presenti sui territori. È molto importante perché la risposta che abbiamo ricevuto - nel giro di poche settimane una cinquantina di disponibilità - è stata ampia anche senza nessuna pubblicità specifica.
Questo successo lo abbiamo realizzato perché si tratta di un progetto istituzionale - che sta dentro il progetto SPRAR del Ministero dell’Interno -, di cui è titolare il Comune di Bologna e che utilizza le professionalità di una cooperativa per accompagnare le famiglie in questo percorso. La famiglia che si candida è sicura per la presenza dell’Amministrazione e di un soggetto con le competenze giuste nel settore, sentendosi più tutelata all’iniziare quest’avventura.
Un progetto credibile e riconosciuto quindi. Quale sono stati i passi successivi?
Su
Vesta abbiamo raccolto le candidature, abbiamo svolto una prima scrematura, siamo andati a incontrare con psicologi e assistenti sociali le singole famiglie per conoscere più nel profondo le effettive disponibilità e le possibilità reali di svolgere il percorso così come ce lo eravamo immaginati. Ci siamo poi concentrati su un gruppo di ragazzi che erano già in accoglienza, ai quali volevamo «assegnare» una famiglia adeguata. Fatti questi primi due passaggi l’azione successiva è stata quello della formazione, divisa in cinque momenti di conoscenze e approfondimento reciproco con le famiglie selezionate alle quali abbiamo spiegato cosa significa l’accoglienza, offrendo loro consapevolezza rispetto alla storia sociale che entrava in casa loro.
A questo punto - e siamo a queste settimane - procederemo all’inserimento vero e proprio, ricevuto anche il nulla osta dal Ministero dell’Interno che ha riconosciuto Vesta come un progetto nel quale crede. Siamo arrivati al momento dell’incontro tra i ragazzi e le famiglie e nelle prossime settimane inizierà la vera e propria accoglienza. Il ruolo della Cooperativa è quello di continuare a monitorare la situazione anche quando si concretizzerà l’ingresso in casa, attraverso la piattaforma web (dove troverà spazio una valutazione costante da parte della famiglia e da parte dell’ospitato) che ci permetterà di provare a costruire una comunità di persone che non siano legate da nessuna appartenenza ma solo dalla condivisione dell’esperienza collegata a Vesta.
La piattaforma non sarà aperta solo alla condivisione della casa. Chi non potrà permettersi di mettere a disposizione un alloggio potrà attivarsi in maniera diversa perché ha un esercizio commerciale, un cinema o qualunque cosa che permetta di costruire momenti di incontro dal punto di vista culturale.
Qual è il bilancio di questa prima fase?
Il risultato è stato assolutamente inaspettato. Abbiamo dovuto chiudere - momentaneamente - le nuove adesioni perché c’è stata una spinta molto forte da parte dei cittadini bolognesi. A livello qualitativo altrettanto perché dalle persone che hanno aderito abbiamo ricevuto una grandissima carica e entusiasmo verso questo tipo di accoglienza. Giustamente sono emerse anche delle giuste preoccupazioni, delle giuste domande, con delle giuste richieste ma con la voglia di provare quella che è di fatto una nuova esperienza di vita.
Parliamo di ecosistemi. Cosa serve per abilitare un territorio e una comunità?
Se come cooperatori ci chiudiamo in una torre d’avorio a denunciare la mancanza di comprensione da parte di chi ci sta intorno abbiamo già perso, e credo che questa volta la sconfitta potrebbe essere definitiva. Tutti stiamo patendo il momento storico in cui viviamo che ha dei riflessi fortissimi su come viene percepita e concepita la cooperazione. Non possiamo permetterci il lusso di dire che le comunità non ci capiscono perché i nostri ragionamenti sono troppo avanzati. Dobbiamo provare a interpretare quali sono le ragioni della crisi di un movimento che io credo possa essere tutt’oggi assolutamente moderno e innovativo e che - soprattutto in un momento di recessione, di scarsità di risorse - può rappresentare un interessante modello d’impresa.
Quello che dobbiamo saper fare è aprirci verso nuovi mondi di comunità perché se le cooperative sono fatte da persone questa deve essere la forza per fare sì che riusciamo a leggere la realtà prima di altri e di conseguenza sappiamo costruire nuovi modelli - anche di aziende, d’impresa - che siano più innovativi e più aggiornati rispetto ai concorrenti. Vesta è andata in questa direzione. Prima che altri trovino soluzioni dobbiamo essere in grado di dare forma a progetti che sfruttino le nuove tecnologie ma che allo stesso tempo si aprano alle famiglie e che creino una relazione forte tra impresa cooperativa e il tessuto sociale delle città.