Venerdì si celebrava l’International Youth Day 2016, dedicata allo sviluppo sostenibile. Secondo Eurostat, quasi un terzo dei giovani italiani non studia e non lavora. Nessuno fa peggio in Ue. (Scopri di più su:
http://www.greenreport.it/leditoriale/la-giornata-internazionale-della-gioventu-sprecata/)
Dagli albori della specie umana, la gioventù non è stata mai così rappresentata nel mondo come oggi. Secondo l’ultimo rapporto Onu che vi ha dedicato un focus specifico (
nel 2014), i giovani non sono mai stati tanto numerosi. Ragazze e ragazzi con età compresa tra i 10 e i 24 anni sono 1 miliardo e 800 milioni su una popolazione mondiale di 7,3 miliardi di persone, e continuano a crescere. La Giornata internazionale della gioventù 2016, che cadeva venerdì (la ricorrenza è stata istituita dall’Onu ormai nel 1999), vuol mettere l’accento sul futuro, tesoro per antonomasia delle nuove generazioni. Non a caso quest’anno il tema della Giornata recita “La strada verso il 2030: eliminare la povertà e raggiungere una produzione e un consumo sostenibili”. Lo sviluppo sostenibile stesso, come definito dal celebre rapporto Brundtland del 1987, è uno «sviluppo che soddisfa le esigenze del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie esigenze».
L’Agenda 2030 dell’Onu, con i suoi Obiettivi di sviluppo sostenibile approvati appena l’anno scorso, si inserisce in questo solco. Eppure,
ricorda sempre l’Onu, a livello globale più di 500 milioni di giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni vive con meno di 2 dollari al giorno, e nei Paesi in via di sviluppo (dov’è concentrata la maggioranza della gioventù mondiale) si stima che oltre i due terzi dei giovani non stiano esprimendo il loro potenziale: sono disoccupati, fanno parte del lavoro nero oppure sono Neet – acronimo di Not (engaged) in education, employment or training. Un paradossale e ciclopico spreco di risorse, proprio mentre la Giornata di oggi vorrebbe essere incentrata sul “ruolo chiave dei giovani nel garantire l’eliminazione della povertà e raggiungere uno sviluppo sostenibile attraverso azioni concrete”.
Sarebbe però un grave errore pensare che quello della gioventù sprecata sia un problema che affligge soltanto i paesi più poveri. È vero anzi il contrario. Come
documenta Eurostat, all’interno dell’Unione europea i giovani (qui intesi come 15-29enni) sono circa 90milioni, il 17% della popolazione Ue. All’incirca, quanto tutti i cittadini tedeschi e svedesi messi insieme. Eppure, e in un continente che sta divenendo sempre più vecchio, le potenzialità di questa gioventù sono fortemente represse.
Tra i 15-19enni europei il 6,3% è rappresentato da Neet, una percentuale che triplica tra i 20-24enni (17,3%) e che sale ancora avvicinandosi all’età adulta: il 19,7% dei 25-29enni europei (ovvero, circa 1 su 5) non sta studiando, non segue un percorso di formazione né lavora. Questa è una valutazione media, ma in alcuni Paesi, naturalmente, tali dati assumono tratti ancora più drammatici.
Guardando alla fascia 20-24 anni, la palma di peggiore paese in Europa per i giovani va all’Italia. Il 31,1% (quasi un terzo) dei nostri ragazzi rientra nella definizione Neet, una performance peggiore anche rispetto a Paesi sfiancati da crisi e austerità come la Grecia (che si ferma al 26,1%). Un quadro drammaticamente peggiorato negli ultimi anni – dieci anni fa i Neet 20-24enni italiani erano il 21,6% –, che va a incrociarsi con un altro dato di fatto: l’Italia è un Paese sempre più vecchio, caratterizzato da uno dei tassi di natalità più bassi al mondo.
Anziché valorizzare al massimo una delle risorse più scarse disponibili in Italia, ovvero la gioventù, ne dilapidiamo le competenze acquisite (in genere dopo lunghi e costosi anni di studio finanziati dalla collettività attraverso le scuole e università pubbliche). Sette giovani su dieci si vedono costretti a vivere con i loro genitori, nonostante la voglia d’indipendenza. Il tasso di occupazione dei maschi tra i 25 e i 29 anni, come documentato dal Sole 24 Ore, è calato da circa l’80% nel 2004 a meno del 60% nel 2014, mentre per le femmine, va ancora peggio: solo una su due in questa fascia d’età ha un’occupazione. Molti decidono di emigrare. Dal 2011 al 2015 i nuovi espatriati under 30, come documentato nei giorni scorsi dallo stesso quotidiano, sono raddoppiati nell’ultimo quinquennio: da 11mila a oltre 22mila l’anno.
Coloro che rimangono sono dunque ancora più preziosi per il Paese. Rappresentano la generazione più aperta, istruita, digitalizzata, internazionale e sensibile alle istanze ambientali che l’Italia abbia mai avuto. Tutte le azioni finora messe in campo per provare a dargli spazio – compresa Garanzia giovani, che secondo l’Isfol ha successo in meno di un caso su tre – sono miseramente fallite. Dalla gioventù, dovrebbe essere ovvio dipende non solo un generico futuro, ma il futuro di ognuno. Dove il mercato da solo fallisce, intervenga la mano pubblica. Sia per promuovere
innovazione e basi per una crescita sostenibile, sia per non lasciare solo chi rimane indietro:
un lavoro minimo garantito per tutti è ancora un sogno possibile.