Europa fuori pericolo recessione ma la ripresa è debole. Come hanno inciso le politiche di austerità e i tentativi di ripresa? (Scopri di più su: http://www.novomodo.org/3-anni-leuropa-pericolo-recessione-cosa-dicono-le-statistiche/?utm_content=buffer442ca&utm_medium=social&utm_source=twitter.com&utm_campaign=buffer)

I recenti rapporti sulla popolazione, l’occupazione ed l’economia delineano una debole ripresa economica ancora non in grado di impatto sugli aspetti sociali, quelli più duramente colpiti dagli anni di crisi e dalle politiche di austerità.

Crescenti disuguaglianze, incertezza sul futuro, frustrazione e risentimento permangono creando terreno fertile per il successo di quelle forze politiche più retrive e nazionaliste ormai diffuse in ogni Stato membro della traballante Unione.


Il testo che segue, a cura di Simone Siliani presenta un’analisi dei dati più significativi su crescita, occupazione e disoccupazione.

Qualcuno sostiene, non senza fondamento, che l’analisi di dati statistici sulla popolazione, l’occupazione e l’economia abbiano poco significato quando misurati e correlati in archi temporali troppo ravvicinati e che i veri dati significativi sono quelli che si misurano su lunghezze medie e medio-lunghe. Sarà, ma seguire costantemente i dati statistici quadrimestrali sull’occupazione e lo sviluppo sociale in Europa pubblicati dalla Commissione Europea è sempre interessante. Così il rapporto sul primo quadrimestre del 2016 appena pubblicato e fondato sulla base dei dati di Eurostat appare come un’occasione per tentare di comprendere in quale misura la debole ripresa economica in atto in Europa si rifletta sugli aspetti sociali che sono stati quelli più duramente colpiti dalla crisi anche in virtù delle ricette di austerità in vigore nel Vecchio Continente e che hanno impedito di reagire alla crisi finanziaria con investimenti e immissione di soldi freschi nel sistema economico provenienti da casse pubbliche. Cosa che, sia detto per inciso, ha certamente inciso anche sul recente referendum inglese e sulla crescita del senso di frustrazione, di risentimento e di incertezza sul proprio futuro da cui traggono alimento le forze politiche più retrive e nazionaliste ormai diffuse in ogni Stato membro della traballante Unione.

A fronte di una crescita economica, ancora misurata in PIL e in GHDI – Gross disposable household income (la disponibilità di reddito familiare al netto delle tasse e contributi sociali), modesta nel terzo anno di uscita dalla recessione, i dati dell‘occupazione e affini presentano complessivamente segni di miglioramento. Ma tutti questi dati sono ancora assai diversificati fra i vari Stati membri dell’Unione. Ad esempio fra gli Stati europei maggiori, la Spagna mostra maggiore dinamismo (nonostante il quadrimestre abbia coinciso con l’assenza di un governo nazionale!) con un +0,8% di PIL, a fronte di una media europea dello 0,5%, mentre Francia, Germania e Italia sono più deboli (0,4%-0,8%) e soprattutto Polonia (-0,1%), Ungheria (-0,8%) e Grecia (-0,5%) sono ancora in recessione. Parametrando i dati ad un anno, solo la Spagna supera il 3% fra gli Stati maggiori, Irlanda, Malta, Romania e Svezia arrivano al 4%, ma la media UE è all’1,8%.

I dati sull’occupazione seguono la stessa curva: avanti piano. L’occupazione è cresciuta nel primo quadrimestre 2016 (rispetto all’ultimo 2015) dello 0,3% in Europa e dell’1,4% in un anno. Ciò significa che 3 milioni di europei hanno trovato lavoro nell’ultimo anno e 6,8 rispetto al momento più basso cioè alla metà del 2013 (di cui nell’area euro 3,8 milioni). Ma anche in questo caso l’Europa mostra troppe differenze all’interno: nel quadrimestre molto bene la Repubblica ceca (1,5%) la Lituania (1,3%), l’Ungheria (1%) e ancora la Spagna (0,7%), ma ancora in declino la Polonia (-0,5%), la Grecia e l’Olanda (-0,1%). Il tasso di occupazione più alto in Europa (Svezia 80%) resta superiore di 25 punti percentuali rispetto al più basso (Grecia 55%). L’Italia continua a stare nella parte bassa della classifica: penultima, insieme a Ungheria con un tasso di occupazione del 61% (la media europea è al 70%). Infatti, nonostante il Jobs Act che dovrebbe proprio nel 2015 aver fatto sentire i propri effetti, siamo ancora nella parte bassa della classifica per quanto riguarda il miglioramento dell’indice di occupazione nell’ultimo anno e ampiamente al di sotto della situazione pre-crisi (2008), mentre già 11 paesi dell’Unione hanno recuperato quanto perso dal 2008 e altri 5 vi si stiano avvicinando.

Dunque, miglioramento lento e moderato anche della situazione occupazionale ma a pelle di leopardo. E, comunque, trainato dal settore dei servizi (tanto quelli a rilevanza economica quanto quelli senza), molto meno dall’industria, mentre sono ancora con il segno meno agricoltura e costruzioni.

Il tasso di disoccupazione scende gradualmente, ma resta ampiamente al di sopra della situazione del 2008: all’aprile 2016 erano 21,2 milioni gli europei disoccupati e nel marzo 2008 erano 26,3.. Tuttavia nell’anno il tasso di disoccupazione in Europa è sceso dello 0,9%, cioè 2,1 milioni in meno rispetto all’aprile 2015 e 5,3 milioni in meno rispetto al picco negativo dell’aprile 2013. Ma, ancora, le differenze fra gli Stati qui sono ancora più macroscopiche: si va da un tasso di disoccupazione del 4,1% nella Repubblica Ceca e del 4,2% in Germania, al 24,1% in Grecia e, al 20,1% in Spagna e, purtroppo, all’11,7% in Italia (che si trova al quintultimo posto, al di sopra della media UE che è l’8,7%).

Tuttavia i segnali che Eurostat rileva nell’ambito della disoccupazione di lunga durata (disoccupati da oltre un anno) e della disoccupazione di lunghissima durata (2 anni) sono interessanti perché queste diminuiscono più velocemente della disoccupazione ordinaria per la prima volta durante la crisi: la disoccupazione di lunga durata è diminuita dello 0,6% nell’anno, arrivando al 4,3% della forza lavoro in Europa, mentre quella di lunghissima durata è diminuita dello 0,4% arrivando al 2,7 complessivo; la disoccupazione ordinaria è diminuita dello 0,2%. resta però altissima la quota dei disoccupati di lunga durata in Europa: circa 10,5 milioni di persone, che costituiscono il 50% del totale dei disoccupati.

Interessanti anche i dati rilevati dal rapporto della Commissione UE nell’ambito del tasso di attività (le persone che sono occupate o in cerca di lavoro), ma questo miglioramento è trainato dalla classe di età 55-64 anni, perché quella 15-24 è ancora scesa, in parte per la cresciuta partecipazione di questi giovani ai processi formativi, in parte per una ancora preoccupante quota di NEET.

Infatti il capitolo “giovani” del primo rapporto quadrimestrale 2016 presenta luci importanti, ma anche ombre ancora scure. La disoccupazione giovanile nell’anno di riferimento (aprile 2015-aprile 2016) nella UE è calata dell’1,9% scendendo al 18,8%, ma meno bene è andata nell’area euro (-1,4% attestandosi al 21,1%). In questo ambito però si nota una convergenza fra i paesi membri, dovuta soprattutto alla migliore performance dei paesi nei quali la condizione del lavoro giovanile aveva subito i colpi maggiori a causa della crisi. La Grecia che era arrivata ad un picco di disoccupazione giovanile nel marzo 2013 pari al 60%, si attesta ora al 50,4%; la Spagna nello stesso periodo è passata dal 55.9% al 44,8%; la Croazia dal 53,8% al 38,9% negli ultimi tre anni; e il Portogallo dal 39,7% al 29,9%.

Complessivamente il tasso di occupazione dei giovani (dai 15 ai 24 anni) è cresciuto dal quarto quadrimestre 2015 a quello analogo del 2016 arrivando al 33,3% (era il 32% nello stesso periodo del 2013, ma rispetto al 2008 è sceso del 3,3%). Buone le performance di Lituania, Ungheria e Lettonia (+5%), della Gran Bretagna e della Croazia (+4%), ma in nove paesi dell’Unione questo tasso è calato, come la Finlandia (-2,2%), l’Austria (-2,1) e la Bulgaria (-1,1%), per quanto i primi due paesi abbiano ancora un tasso di occupazione giovanile fra il 50 e il 40 per cento.

L’Italia presenta un andamento contraddittorio nel campo dell’occupazione giovanile. Infatti, se nell’anno di riferimento facciamo registrare una delle maggiori riduzioni del tasso di disoccupazione giovanile (-5,5%), l’Italia (insieme a Bulgaria e Grecia) fa registrare il più alto tasso di inattività nella classe di età 15-24, arrivando al 74%. Naturalmente, in gran parte questo dato è dovuto all’impegno dei giovani nel loro processo formativo che proprio in Italia vede un certo miglioramento nella performance; ma non può non preoccupare il fatto che l’Italia resta il paese con la più alta presenza di NEET nell’Unione Europea. Nell’ambito di una più complessiva riduzione percentuale di questa fetta di giovani fra i 15 e i 24 anni che non sono al lavoro ma neppure a scuola e in percorsi formativi (-0,5% rispetto al 2014 e -1% rispetto al 2013), l’Italia resta con la maglia nera al 21,4%. Anche qui la disparità fra gli Stati membri è impressionante: l’Olanda è scesa sotto il 5% (4,7%), 10 paesi sono sotto al 10% e diversi paesi anche fra quelli più colpiti dalla crisi hanno registrato miglioramenti significativi in questo settore fra il 2013 e il 2015 (Ungheria -3,9%, Grecia -3,2%, Spagna -3%, Portogallo -2,8%, Bulgaria -2,3%). Altri 8 paesi, invece, hanno aumentato il numero di NEET: Finlandia (+1,3%), Romania (+1,1%), Francia (+0,7%).

Il rapporto propone un inedito focus sui NEET, distinguendoli fra quelli inattivi (coloro che non cercano un lavoro) e quelli disoccupati che cercano lavoro. I dati ci rivelano che la riduzione complessiva dei NEET è trainata dai NEET attivi che, cercando lavoro, lo hanno trovato; mentre il tasso dei NEET inattivi non è sostanzialmente cambiato nella UE. Fra il 2013 e il 2015, tuttavia, 11 Stati membri sono riusciti a ridurre il numero di giovani NEET inattivi, come Portogallo (-1%), l’Ungheria (-2,1%), la Croazia (-0,7%). Ma non l’Italia che, insieme alla Romania, mantiene una quota di NEET inattivi intorno al 12%. Un dato senz’altro molto preoccupante che richiederebbe un maggior attivismo del nostro Governo, soprattutto perché la buona performance di alcuni paesi UE con tassi di NEET paragonabili ai nostri che tuttavia hanno agito e intercettato questi giovani offrendo loro della possibilità, dimostra che non sono giovani irrecuperabili.

Ma qui, davvero, occorrono investimenti seri nel sistema dei Centri per l’Impiego, nel rapporto fra scuola e imprese, nell’attuazione di programmi come Garanzia Giovani e non i palliativi dei 500 € per ogni maggiorenne (per quanto possa procurare qualche consenso o simpatia momentanea), che invece sono inutili dispersione delle poche risorse disponibili che però vengono così sottratte alle necessarie politiche strutturali.

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