‘Fare di più con meno’ è diventato l’imperativo categorico per le politiche pubbliche locali e i loro rappresentanti istituzionali, faticosamente impegnati a districarsi tra le esigenze di contenimento dei costi e le condizioni di efficacia dell’azione amministrativa. Per gli attori delle politiche di welfare ciò significa, soprattutto nel Mezzogiorno, ma non solo, vivere in trincea. Provare a fronteggiare i grandi temi sociali del nostro tempo, migrazioni, impoverimento, invecchiamento, con risorse palesemente inadeguate, per quantità e qualità. Una fatica di Sisifo. (Scopri di più su: http://www.labsus.org/2016/07/welfare-locale-beni-comuni-e-capitale-sociale/)
A leggerla bene questa considerazione contiene già qualche utile traccia di riflessione. La consapevolezza delle proprie capacità, dei propri limiti, è già una competenza importante. Consente di porsi degli obiettivi concreti, di misurare il proprio impegno col metro del possibile, del reale. Nessuno può farcela da solo. Una prospettiva interessante anche dal punto di vista politico, perché indica la necessità di spazi e luoghi inediti per la discussione, il confronto, l’elaborazione delle idee, che possono integrare il sistema tradizionale della delega e della rappresentanza democratica, magari correggendone alcuni limiti. A condizione che se ne accolga lo spirito più autentico e ci si ponga il tema, purtroppo marginale nel dibattito pubblico sulla riforma costituzionale, di una graduale e progressiva cessione di potere, o – se si preferisce -della rigenerazione delle forme della democrazia.


La sussidiarietà nelle politiche di welfare locale

Anche per le politiche pubbliche locali l’assunzione di tale prospettiva indica percorsi di lavoro inediti, che riguardano il rapporto tra cittadini e istituzioni e le loro reciproche responsabilità. È questo il cuore della proposta politica e culturale di Labsus, che individua la cura e la rigenerazione dei beni comuni come via maestra per il buon funzionamento della vita sociale e politica delle nostre comunità. Cittadini e istituzioni insieme, secondo il principio della circolarità dell’azione sussidiaria, perché si possa realizzare quello che né i cittadini da soli, né le istituzioni da sole, riescono a fare.Le istituzioni sono responsabili di preservare e tutelare i beni comuni tanto quanto gli stessi cittadini, nella loro autonomia e capacità.

Che cosa significa tutto ciò, concretamente, nelle pratiche ordinarie di costruzione e gestione delle politiche di welfare a livello territoriale? Come possiamo integrare la prospettiva della sussidiarietà nell’attuazione delle politiche sociali?

Una prima approssimazione al tema la possiamo cercare assumendo come paradigma generale un rinnovato protagonismo dei cittadini nelle politiche di welfare. Non tanto e non solo un generico coinvolgimento della società civile nelle fasi concertative connesse alla programmazione delle politiche sociali, come è avvenuto nella stagione, ormai al declino, dell’attuazione della legge quadro. E nemmeno nel richiamo alla solidarietà, alla centralità della persona, intesi come valori astratti a cui ancorare le prassi del lavoro sociale.


Le persone come risorsa, non come problema

Più prosaicamente si tratta di adottare e praticare direttamente l’idea che le persone sono portatrici di esperienze e competenze, quindi – in quanto tali – risorse e valore, economico e sociale. E chi sono queste persone? Dove sono? Nel tempo storico del trionfo degli individualismi, dei particolarismi, non si rischia di alimentare una narrazione un po’ retorica (il bene-comunismo, come qualche sagace commentatore lo ha definito) delle virtù civiche e progressive della società italiana? Conviene prendere sul serio queste obiezioni e interrogarle criticamente, perché rilevatrici di almeno due tracce di lavoro utili alla nostra riflessione. La prima l’accenniamo solamente, per la sua importanza, non potendola approfondire in questa occasione: riguarda lo stato di salute della burocrazia nel nostro paese, cui affidiamo una quota rilevante del rinnovamento possibile della pubblica amministrazione. L’assunzione del principio della sussidiarietà dentro l’azione amministrativa richiede sensibilità culturali nuove, una sana inquietudine intellettuale e grande consapevolezza della complessità dei problemi del nostro tempo.

La seconda, ancor più rilevante, si riferisce al recupero di una funzione comunitaria del servizio sociale, tema che non è estraneo al suo statuto epistemologico. Sopravvissuto alla deriva tecnicistica, che ha rischiato di soffocare il servizio sociale, il tema comunitario può trovare nelle pratiche di cura e rigenerazione dei beni comuni una nuova strategia di sviluppo. Una prospettiva di lavoro capace di saldare la ricerca e le pratiche più interessanti d’innovazione sociale con l’esperienza storica più feconda del lavoro sociale.

Bisogna quindi recuperare questa capacità, di leggere le nostre comunità come giacimenti di risorse latenti e le persone che ci vivono come alleati, come opportunità, piuttosto che come problemi. E ciò vale anche per gli utenti dei servizi, come mostrano le pratiche di co-produzione che provano a ridisegnare le politiche del welfare locale attraverso il ruolo attivo e diretto dei destinatari dei servizi (Orlandini, Rago, Venturi, 2014). Se le famiglie dei bambini che frequentano l’asilo nido della mia città assumono un ruolo diretto nella produzione del servizio, integrando il lavoro professionale degli operatori e, ad esempio, arricchendo l’offerta educativa con il bagaglio delle proprie competenze, avremo innestato un circolo virtuoso: migliorato la qualità del servizio, qualificato la domanda sociale, promosso la cultura dell’educazione nei primi anni di vita.

Un investimento dal forte valore sociale che, come ci ricorda l’economista premio Nobel James Heckman, contribuisce allo sviluppo economico di una comunità e all’incremento delle condizioni di benessere per gli adulti e i bambini che la vivono.


Promuovere il capitale sociale

Alcune delle esperienze di welfare locale più direttamente collegate a questa prospettiva sono quelle che puntano a promuovere lo sviluppo di capitale sociale nelle comunità. Com’è noto il concetto di capitale sociale si caratterizza per una singolare ambivalenza, da una parte soffre di una relativa astrazione semantica, dall’altra gode di una indubbia fortuna sociologica. Sinteticamente assumiamo qui l’idea, ormai condivisa, che la condizione di benessere delle persone sia il risultato della ricchezza prodotta (classicamente, il PIL) integrata con la disponibilità di beni e risorse pubblici, naturali, relazionali che, pur non avendo mercato, quindi un prezzo, partecipano però alla determinazione della qualità della vita degli individui, della loro autonomia e del grado di benessere percepito (BES 2013 e successive. BES 2016). Questi beni e queste risorse concorrono a definire il capitale sociale di una comunità: coesione, fiducia, senso di appartenenza, spirito civico. Beni che producono valore, ancora una volta sociale ed economico, utile al miglioramento delle condizioni di vita di ciascuno e di tutti. Pur nella sua indeterminatezza,quindi, il capitale sociale produce effetti rilevanti sul funzionamento della vita sociale e politica di una comunità.


Ma come si produce capitale sociale nelle nostre comunità?

La pratica sussidiaria è uno dei principali processi di produzione di capitale sociale. L’individuazione di un bene comune, materiale o immateriale, l’assunzione condivisa dell’azione concreta della sua cura e tutela, rigenera legami sociali e contribuisce al miglioramento delle condizioni di vita delle persone. Il fare concreto della cittadinanza attiva, la produzione diretta delle condizioni materiali e immateriali di convivenza sociale e civile, alimenta così i sistemi locali di welfare, sviluppandone le condizioni di efficacia.


Fare welfare con l’amministrazione condivisa

Ne deriva l’urgenza di assumere questa prospettiva nelle pratiche di welfare locale, integrando gli obiettivi di politica sociale con quelli di promozione della cittadinanza attiva, di amministrazione condivisa dei beni comuni, di promozione del capitale sociale delle comunità. Un patrimonio che va coltivato, alimentato e sviluppato con maggiore intenzionalità, come vuole il dettato costituzionale. Soprattutto al tempo della scarsità delle risorse e della crisi della democrazia.

‘Fare di più con meno’ diventa così un paradosso praticabile, una traccia di lavoro possibile, su cui vale la pena di investire il proprio impegno sociale e professionale.

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