La retorica delle buone azioni non serve a niente se non a banalizzare il bene, ma se l’osservazione della realtà ci dice che la paura sta vincendo, possiamo pensare che abbiamo fra le mani un antidoto decisivo: per convenzione viene chiamato volontariato, ma insomma, fate voi, l’importante è che venga alimentato. (Scopri di più su: http://theway.uidu.org/storiedautore/8635/#.V4SytaKo3_k)
Nel 1997 lo scrittore Eduardo Galeano pubblicava un libro intitolato El fùtbol a sol y sombra. La traduzione italiana una volta tanto rendeva anche meglio: Splendori e miserie del gioco del calcio.

Attraverso microstorie di calciatori, Galeano raccontava il novecento dello sport più famoso del mondo tramite, appunto, i suoi splendori e le sue miserie. Tutte le storie avevano un filo in comune: l’enorme capacità di sorprendere, nel bene o nel male. Al lettore giudicare. La metafora ci serve a raccontare il nostro tempo, un tempo capace di tutto. Abbiamo ancora il senso di nausea addosso per l’assassinio di Emmanuel Chidi Namdi e osserviamo il meraviglioso canto di addio di sua moglie Chinyery alla veglia dopo la sua morte. È un episodio più episodio di altri. Racconta molto del nostro tempo. La storia di Emmanuel sembra un noir triste, con sprazzi di felicità che annegano nell’irrimediabile incapacità della storia di avere un lieto fine. Anche quando è ad un passo dal lieto fine. Tutto allora sembra inutile, tutta la sofferenza e il sangue cosparsi nei corridoi della fuga sono spesa invano.
  • La domanda di fondo che attanaglia chi ha il coraggio di porsela è questa: perché il mondo ha paura?
Paura di rimanere cittadini di un continente che ha imparato la pace; paura verso altre persone che cercano speranza a casa nostra; paura di rimanere senza il necessario; paura di non avere più possibilità; paura che l’altro irrompa nella propria vita rovinandola. E sempre a proposito di sorpresa, sorprende leggere nero su bianco un dato già evidente: più di sei italiani su dieci non parla col vicino di casa. Considerato che gli altri 4 in genere ci litigano, il dato, pur semplice e da contestualizzare, è assai inquietante. Emerge da uno studio promosso da Nescafé che porta alla luce una problematica raccontata dal video-esperimento sociale The Nextdoor Hello. Lo studio da cui ha preso spunto l’esperimento è stato condotto con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su circa 1800 italiani, uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 65 anni, attraverso un monitoraggio online sui principali social network, blog e forum per capire come sono cambiati nel tempo i rapporti nei condomìni italiani tra vicini di casa. La fotografia è triste.

Il bello è che quando viene chiesto agli intervistati perché non ci si considera fra vicini, il 73% di loro risponde che è colpa della frenesia della routine quotidiana che impedisce di approfondire qualsiasi rapporto che non riguardi il nucleo famigliare, le amicizie più strette o l’ambito lavorativo. Di conseguenza si ha a disposizione poco tempo per la socializzazione (68%), scoraggiata ancora di più dall’aumentata percezione di micro-criminalità e terrorismo attraverso i media (39%). Quasi un italiano su 2 (49%) teme di essere ignorato dal vicino, mentre il 32% dei monitorati ha paura di risultare invadente e il 29% sostiene di essere troppo timido. Insomma, facciamo tutto da soli. Il problema è che continuiamo a chiuderci nei nostri fortini di certezze assediate, senza accorgerci quanto tutto ciò ci fa male.
  • Con la miseria della chiusura post-moderna, convive lo splendore della relazione sociale.
Il bisogno di relazionalità, ce lo ha detto chiaramente l’Istat con l’indagine 2014 che ha sperimentato il modulo Ilo sulla misurazione del lavoro volontario, è uno dei principali motori dell’azione volontaria (come ho raccontato qui: Il volontariato e quella ricchezza che nessuno misura).

Fare volontariato significa molte cose. Significa anche uscire da una dimensione privatistica della vita; significa sperimentare la collaborazione con gli altri anche prima di entrare nel lavoro; significa sentirsi parte di una comunità che è resa migliore dal nostro impegno per gli altri; significa allargare l’orizzonte e alzare lo sguardo sul “Paese reale”. Significa, in fin dei conti, combattere l’idea che la propria felicità e realizzazione dipenda solo da noi stessi, rifiutare di chiudersi nella paura per aprirsi al mondo, con tutto il potenziale negativo che il mondo possiede. “Il genere umano -scriveva Elie Wiesel- deve ricordare che la pace non è il dono di Dio alle sue creature; la pace è il dono che ci facciamo gli uni con gli altri”.
  • La retorica delle buone azioni non serve a niente se non a banalizzare il bene, ma se l’osservazione della realtà ci dice che la paura sta vincendo, possiamo pensare che abbiamo fra le mani un antidoto decisivo: per convenzione viene chiamato volontariato, ma insomma, fate voi, l’importante è che venga alimentato.
Fate vedere ai ragazzi quanto sia importante tutto questo. Insegnategli la magia, non le fatiche o i problemi. Quelli li scopriranno da soli. Chiamatelo come vi pare, raccontatelo senza retorica, praticatelo invece di celebrarlo, ma vedeteci sempre dentro quelle gocce di splendore che cantava Fabrizio De André.

*Giulio Sensi. Comunicatore sociale, direttore di Volontariato Oggi e collaboratore di diverse riviste del non profit. Sul sito di Vita cura L'involontario, blog su volontariato e i suoi dintorni.

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