Il 23 giugno poco meno del 52% dei cittadini britannici si è espresso a favore dell’uscita del paese dall’Ue, lasciando l’Europa e quella parte del mondo che segue da vicino le vicende del vecchio continente, senza parole. (Scopri di più su: http://www.labsus.org/2016/06/brexit-la-parola-ai-cittadini/)
Il testa a testa fino all’ultimo minuto tra i sostenitori del “Leave” e del “Remain” ha lasciato accese le speranze oltre ogni ottimismo, ma l’esito è ora definitivo.

Secondo il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, “non sarà un divorzio consensuale”, tesi avvalorata dal terremoto politico che ha colpito la Gran Bretagna in questi giorni e dalle prime dichiarazioni dei capi di Stato europei che sembrano intenzionati ad avviare al più presto i negoziati per l’uscita.

La partecipazione al voto è stata elevata – il 72% pari a circa trenta milioni di cittadini – la più alta dal 1992. Il paese risulta spaccato in due con una percentuale a favore del “Remain” pari al 62% in Scozia, 59,9% a Londra e 52,8% in Irlanda del Nord. La Gran Bretagna rurale e delle classi medie ha avuto la meglio sulle aree indipendentiste e sulla Londra cosmopolita. Smontata la tesi, avvalorata da alcuni sondaggi pre elettorali, in base alla quale si sarebbe trattato di uno scontro generazionale, con i giovani schierati a favore del “Remain” e gli anziani a favore del “Leave”. In realtà la partecipazione dei giovani al referendum è stata bassa (sotto il 40%) a fronte di più del 80% degli over 65.

Quando sono i cittadini ad esprimersi attraverso uno strumento di democrazia diretta quale il referendum, non resta che sottostare al loro volere, anche se il referendum sulla Brexit non è stato voluto dai cittadini, ma è stato proposto dal Primo Ministro David Cameron il quale, alla vigilia delle elezioni del 2015, promise un referendum per l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue entro il 31 dicembre 2017.

Il referendum non è di per sé legalmente vincolante; il Parlamento deve approvare una legge che metterà in moto la procedura prevista dall’art. 50 del Trattato di Lisbona e che comporterà l’abrogazione dello European Communities Act che nel 1972 portò il paese ad aderire alla Comunità europea.

Il tentativo maldestro di Cameron di contrastare l’avanzata dello Ukip di Nigel Farage, che nelle elezioni europee del 2014 era risultato il primo partito in Gran Bretagna, si è trasformato in un boomerang per il Primo Ministro costretto alle dimissioni. Cameron infatti, dopo aver proposto lui stesso il referendum, si è battuto a favore del “Remain”, con esiti disastrosi per il suo successore che sarà costretto a condurre i negoziati per l’uscita del paese dall’Ue. La scelta politica di un leader europeo si è tradotta nella crisi più grave che l’Ue abbia dovuto affrontare dalla sua nascita.

L’euroscetticismo britannico non è una novità delle ultime ore: ha da sempre guidato i tormentati rapporti che hanno legato questo paese al progetto europeo. L’opting out chiesto (ed ottenuto) a Maastricht, il rifiuto di aderire agli Accordi di Schengen non sono che i passaggi più controversi della presenza britannica all’interno delle istituzioni europee.

Al tempo stesso la Brexit rappresenta la punta dell’iceberg di un malcontento diffuso, più volte espresso dai cittadini europei, ma che evidentemente non ha trovato le giuste risposte da parte delle istituzioni e della classe politica europea.

Le elezioni del 2014 avevano già lanciato un campanello d’allarme, facendo registrare la percentuale più bassa di partecipazione al voto (42,61%), con una decisa affermazione di un variegato fronte euroscettico che ha attraversato trasversalmente da destra a sinistra l’elettorato europeo.

Evidentemente il progetto europeo non scalda più il cuore dei cittadini (ammesso che l’abbia mai scaldato) che non vedono nell’adesione del loro paese all’Unione europea un’occasione di sviluppo e crescita.

Da diversi anni l’Ue è alla ricerca di una “nuova narrazione” che sappia sostituire la “retorica della pace” dei padri fondatori, di fatto lontana dalle giovani generazioni che non hanno mai vissuto la guerra, con una proposta che sappia tenere insieme le sfide di un mondo globale e la specificità dei contesti locali.

La politica ha infatti il compito di interpretare le paure dei cittadini (non di cavalcarle) e di lavorare per il loro superamento. I particolarismi a base nazionalistica, per quanto antiquati possano sembrare, rappresentano l’altra faccia della medaglia di un processo di globalizzazione privo di regole e di tutele per i cittadini, nei confronti del quale la stessa Ue non ha saputo rappresentare una valida alternativa.

A fronte di ciò, l’Ue delle banche, dei tecnocrati e delle lobbies rischia di emergere su tutto e di travolgere le tante conquiste per le quali il vecchio continente è debitore nei confronti del processo di integrazione europea, che rimane, con tutti i suoi limiti, il più grande esperimento al mondo di democrazia sovranazionale.

In questi momenti l’Europa non può che ripartire dal realismo visionario che ispirò i padri fondatori, guardando a un progetto che ponga i cittadini al centro, nel rispetto di quei valori che troppo spesso restano formule vuote all’interno dei Trattati:
  • “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini” (Art. 2).

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