L’attuale fase storica dei sistemi di welfare pone, come a tutti ben noto, problemi di sostenibilità delle prestazioni ritenute necessarie per la garanzia dei diritti sociali, al fine di assicurare a tutti livelli adeguati di “benessere”. Ma come spesso avviene, i momenti di crisi possono indurre a ripensare a situazioni consolidate: non necessariamente per ridurre livelli acquisiti, quanto piuttosto per dare nuova forza a principi e strumenti innovativi. (Scopri di più su:
http://www.labsus.org/2016/06/welfare-generativo-per-la-cura-dei-beni-comuni/)
Può essere questo il caso del c.d. welfare generativo, espressione che sintetizza un percorso di ricerca e azione che la
Fondazione Emanuela Zancan ha da diversi anni studiato, proposto e sperimentato: un percorso finalizzato a rendere i soggetti destinatari di interventi e prestazioni sociali protagonisti di azioni di “rigenerazione”, vale a dire di interventi a vantaggio della collettività, che potrebbero consistere in quegli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni su cui Labsus è fattivamente impegnata. Ciò richiede la responsabilizzazione di tali persone, “invitate” a rendersi disponibili per realizzare azioni a corrispettivo sociale: sia per rendersi utili, e perciò per migliorare il livello della loro qualità di vita e di dignità personale, e sia anche al fine di rendere maggiormente sostenibili i livelli di welfare. Tale prospettiva ha trovato nelle settimane scorse una concretizzazione in un disegno di legge che la Fondazione Zancan ha elaborato, e che è stato presentato alla Camera dei deputati da diversi parlamentari (
C3763, prime firmatarie Iori e Lenzi).
Prima di analizzare tale proposta, facciamo però un passo indietro, per comprendere il senso dell’affermazione iniziale. L’evoluzione dei diritti nel corso degli ultimi decenni è andata nella direzione, più che di un ampliamento del catalogo dei diritti in astratto considerati (il diritto alla salute, il diritto al lavoro, e così via), piuttosto dell’estensione dei contenuti riferibili a ciascuno di tali diritti. Ciò è avvenuto a seguito e come conseguenza di numerosi fattori, tra i quali – ad esempio – il progresso delle conoscenze in ambito scientifico e tecnologico; un generale incremento della qualità della vita e delle esigenze ad essa correlate; un innalzamento dell’aspettativa di vita; e così via. Si pensi, ad esempio, al “diritto alla salute” sancito dall’art. 32 Cost., per il quale è stata da tempo abbandonata la convinzione che faceva coincidere la “salute” con l’assenza di malattie (limitandone la tutela esclusivamente ad interventi di tipo curativo/riparativo), in favore di una concezione che richiede interventi di tipo relazionale ed anche affettivo, senza dei quali non si ritiene garantita una salute effettiva. Ed infatti, l’art. 1 della dichiarazione internazionale di Alma Ata del settembre 1978 definisce la salute “come stato di benessere fisico, sociale e mentale e non solo come assenza di malattia e di infermità”.
Analogamente possiamo dire per il concetto di (ed il relativo diritto alla) assistenza sociale, che l’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea definisce come diritto a “un’esistenza dignitosa per tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”. E’ evidente la flessibilità della nozione di «esistenza dignitosa», ma anche la sua forza espansiva in relazione alle condizioni economico-sociali di un contesto europeo comunque in progressiva crescita (al netto delle fasi di crisi, ovviamente).
Altri esempi potrebbero aggiungersi (si pensi al diritto all’istruzione, al lavoro, alla tutela nel caso di disoccupazione, all’abitazione, alla protezione dell’infanzia, e così via): sebbene il nomen sia rimasto lo stesso nel tempo, il contenuto si è dilatato nel corso degli anni, ed i servizi che ad essi si riconnettono costituiscono un patrimonio rispetto al quale non è possibile arretrare, pena la percezione di una mancata garanzia dello stesso diritto.
D’altro canto, le risorse pubbliche disponibili per garantire tale complesso di diritti e prestazioni non sono sempre sufficienti, anche – ma non soltanto – a causa della crisi economica da cui ancora non siamo usciti. Peraltro, è stata la stessa Corte costituzionale a porre in correlazione la garanzia dei diritti – e delle relative prestazioni – con le limitate risorse economiche: nella sentenza n. 248/2011 si legge infatti che “l’esigenza di assicurare la universalità e la completezza del sistema assistenziale nel nostro Paese si è scontrata, e si scontra ancora attualmente, con la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente è possibile destinare”. Affermazione che qui non merita commentare, ma dalla quale emerge come il tema della sostenibilità dei sistemi di welfare si ponga in termini talvolta drammatici. Per queste ragioni (anche per queste ragioni) occorre esplorare soluzioni capaci di consentire il mantenimento di livelli di welfare adeguati senza abbandonare la prospettiva di accessi a carattere universalistico: e in tale direzione va la proposta di “welfare generativo” sopra indicata.
Tale proposta, tuttavia, muove anche da altre considerazioni, e tende a dare attuazione ad alcuni principi fondamentali della nostra Costituzione. Tra questi, il principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., da leggere in sistema con l’art. 4, secondo comma, Cost., per il quale “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Ciò significa che la solidarietà richiesta dalla Costituzione presuppone un impegno attivo di ogni componente la collettività in vista del progresso sociale: collaborazione che può realizzarsi mediante un’attività di tipo lavorativo o professionale ma anche attraverso un’attività extra-lavorativa, di carattere volontario.
Al contempo, la proposta mira a garantire i diritti fondamentali di ciascuno, con riguardo quindi al principio sancito dall’art. 2 Cost., in quanto il contributo che ogni persona, destinataria di interventi e prestazioni sociali, può offrire al perseguimento del bene comune produce valore non soltanto a vantaggio dei destinatari dell’attività, ma anche a favore della persona che realizza un’attività a vantaggio del bene comune. Potremmo dire, per sintetizzare, che è “dando che si riceve”, ovvero che si tutela il diritto di chi riceve una prestazione sociale aiutandolo a realizzare un’attività a beneficio di altri.
Ed infine, la proposta di WG mira a dare concreta attuazione al principio di sussidiarietà: essa consente e favorisce infatti la realizzazione di “attività di interesse generale”, indicando “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati” come la prospettiva da cui far scaturire proposte di attività da realizzare.
Detto quindi dei presupposti, analizziamo brevemente la proposta di cui si parla. L’idea è di collegare l’erogazione di una prestazione sociale da parte del sistema integrato (nelle varie forme di integrazione pubblico-privato possibili) alla attivazione da parte del soggetto destinatario della prestazione, nei termini di un impegno sociale a vantaggio della collettività: in altri termini, si propone che coloro che ricevono delle prestazioni “restituiscano” alla società qualcosa di quanto ricevuto, attraverso di quelle che vengono definite “azioni a corrispettivo sociale”. Con tale affermazione si intende far emergere il valore rigenerativo e di rendimento (sia economico che sociale, ma anche di arricchimento personale) delle prestazioni che vengono erogate, in quanto tali capaci di contribuire al progresso sociale. Esse richiedono e presuppongono il coinvolgimento attivo e responsabilizzante di quanti ricevono interventi di sostegno, e sono finalizzate a rafforzare i legami sociali, a favorire le persone deboli e svantaggiate nella partecipazione alla vita sociale, a promuovere il patrimonio culturale e ambientale delle comunità; in generale, ad accrescere il capitale sociale locale e nazionale. Tali azioni non avrebbero carattere obbligatorio, e non costituirebbero quindi condizioni sine qua non per l’erogazione del servizio che si riceve, bensì si dovrebbero collocare nell’area dell’azione libera, come tale espressione del principio di solidarietà sociale: per il quale, come affermato dalla Corte costituzionale in una celebre sentenza, “la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, ma per libera e spontanea espressione delle profonda socialità che caratterizza la persona stessa” (sentenza n. 75/1992). Di conseguenza, essendo “azioni volontarie” e non “lavoro”, esse non possono in nessun caso assimilarsi ai “lavori socialmente utili”, almeno nella versione di questi ultimi che abbiamo conosciuto e che il legislatore ha regolato.
Circa la scelta a favore della volontarietà delle azioni “a corrispettivo sociale” convergono due motivazioni: da un lato, una scelta che potremmo definire di carattere etico (non costringere una persona che riceve una prestazione come garanzia di un proprio diritto a dover svolgere obbligatoriamente un’attività; ritenere che un’attività a vantaggio della collettività non possa essere imposta forzosamente; ecc.); dall’altro, le difficoltà di immaginare conseguenze, sul piano giuridico, all’ipotesi di eventuale inadempimento (non possono essere previste sanzioni, come è evidente per vari motivi). Tutto questo rafforza la prospettiva sussidiaria e solidarista della proposta.
Anche la prospettiva del “corrispettivo” richiede una precisazione, in quanto il termine può prestarsi ad equivoci, qualora esso sia inteso con riguardo al principio dello scambio di equivalenti: in tal senso “corrispettivo” equivarrebbe ad una sorta di “pagamento della prestazione”, non mediante trasferimento di denaro ma attraverso attività lavorativa (o comunque attraverso un facere). Non è questa la prospettiva che si intende perseguire: l’attività richiesta è (sarebbe) senz’altro collegata alla prestazione ricevuta, senza che però questo collegamento si sostanzi in uno scambio di equivalenti. Piuttosto, essa dovrebbe essere considerata alla stregua di uno “scambio” in termini di reciprocità: e questa prospettiva aiuta a comprendere ed inquadrare il senso della proposta, giacché la reciprocità non richiede equivalenza ma proporzionalità. In altri termini: colui al quale viene chiesta una prestazione non è tenuto a prestare un’attività che corrisponda al “costo” (non solo economico, evidentemente) della prestazione ricevuta; piuttosto, egli potrebbe essere tenuto a fornire una prestazione corrispondente alle proprie possibilità, sulla base pertanto di un progetto che necessariamente si deve configurare come personalizzato e concordato.
La realizzazione di questo sistema richiede un intervento sinergico di vari soggetti, istituzionali e della società civile (dallo Stato alle Regioni, dai Comuni al Terzo settore e alla rete dei cittadini attivi): tutti dovrebbero essere coinvolti, secondo i ruoli propri di ciascuno, a cooperare in una logica di “sistema”.
Credo che sia assai opportuno approfondire, all’interno di questa logica complessiva, le prospettive di interazione con la riflessione e le azioni provenienti da Labsus e relative, come si è detto, a interventi di rigenerazione e cura dei beni comuni: comune è l’intento di favorire un coinvolgimento dei “cittadini attivi”, ovvero di coloro che, prescindendo da vincoli di carattere associativo stabile, intendono mettersi insieme per la cura dei beni comuni e per lo svolgimento di attività di utilità sociale, in attuazione diretta del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118, quarto comma, Cost. In tal modo, alle persone destinatarie di interventi e prestazioni sociali verrebbe offerta l’opportunità di esprimere la propria “autonoma iniziativa per lo svolgimento di attività di interesse generale”, favorendo in tal modo anche la loro creatività e le loro competenze da porre a servizio di tutti. Mi pare che la sintonia con l’azione di Labsus sia molto forte, e meriti di essere approfondita e valorizzata.
- *Emanuele Rossi è un costituzionalista e giurista italiano. Si occupa in particolare di diritti e libertà fondamentali, di giustizia costituzionale, di diritto parlamentare. Dal 2011 è Direttore dell’Istituto Dirpolis (Diritto, politica, sviluppo) della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. È membro dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti e dal 2015 fa parte del suo Consiglio direttivo. Dal giugno 2013 è Pro-Rettore vicario della Scuola Superiore Sant’Anna.