L’ambizione della Laudato si’ è precisa: «non è tanto un documento da leggere, ma un itinerario da vivere in vista di impegni da assumere e comportamenti da attuare tenendo conto delle molteplici crisi odierne»1. Che tipo di percorsi intraprendere affinché l’ecologia integrale possa realmente divenire tratto distintivo della nostra civiltà? Quali buone pratiche possono agevolare la cura della casa comune? (Scopri di più su:
http://www.aggiornamentisociali.it/easyne2/LYT.aspx?Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento%3D14702)
Nel capitolo VI dell’enciclica, dedicato all’educazione e alla conversione ecologica, papa Francesco si spinge molto avanti nell’elencare comportamenti virtuosi, «come evitare l’uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare, trattare con cura gli altri esseri viventi, utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone, piantare alberi, spegnere le luci inutili, e così via» (LS, n. 211). I nostri stili di vita sono chiamati in causa, per contribuire a creare una cittadinanza ecologica. Ma non basta. Poiché l’obiettivo è la cura della casa comune, desideriamo soffermarci sulla dimensione comunitaria degli stili di vita (
cfr LS, n. 219), dando spazio a quanto di buono già esiste in due ambiti: il consumo critico (opposto al consumismo) e la dimensione collettiva (contrapposta a quella privata) nella ricerca di soluzioni a problemi socioambientali e nell’utilizzo dei beni. Il tutto nella prospettiva di un nuovo inizio, nella speranza e nella gioia, poiché «il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere» (LS, n. 33).
Consumismo ossessivo vs consumo critico
In diversi passaggi dell’enciclica papa Bergoglio denuncia i rischi di «un consumismo senza etica e senza senso sociale e ambientale» (LS, n. 219), che disorienta e stordisce: «più il cuore della persona è vuoto, più ha bisogno di oggetti da comprare, possedere e consumare» (
cfr LS, n. 204). Quanti di noi hanno fatto esperienza di «altissimo consumo e di benessere» (LS, n. 209) hanno anche verificato «che il progresso attuale e il semplice accumulo di oggetti o piaceri non bastano per dare senso e gioia al cuore umano» (ivi). Eppure viviamo in un’epoca (e in una parte di mondo) in cui è quasi fatto divieto formulare desideri diversi dall’acquisto e dall’accumulo ossessivo di beni2. In un contesto simile, quali antidoti comunitari sviluppare?
Il consumo critico può venirci in aiuto, poiché si tratta di «una modalità di acquisto di beni e servizi che tiene conto non solo del prezzo e della qualità percepita dei prodotti, bensì anche – in alcuni casi soprattutto – del comportamento dei produttori e della sostenibilità ambientale e sociale della filiera produttiva»3. Non si tratta di rinunciare all’acquisto, ma di sperimentare proposte alternative di consumo, a partire dal livello locale e più prossimo, da ciò che è concretamente possibile, attuando pratiche economiche che mirano a ridare dignità al lavoro e che non danneggiano l’ambiente. Il consumo critico consente di progredire nella capacità di uscire da se stessi per andare verso gli altri, poiché si basa su una relazione più diretta e solidale tra chi produce e chi utilizza beni o servizi; sono le reti di economia eco-solidale comprendenti, tra gli altri, i gruppi di acquisto solidale (GAS)4, le banche del tempo e i bilanci di giustizia5. Queste esperienze di consumo condiviso6 mettono al centro la necessità di riorganizzare la produzione e il consumo sulla base di bisogni umani, sociali e ambientali e non sull’accumulo o sul profitto a ogni costo, e valorizzano la nostra libertà di scegliere responsabilmente che cosa acquistare. Infatti oggi non mancano gli strumenti informativi per rintracciare il “tragitto” di molti beni e scoprire sfruttamenti umani e ambientali nella filiera produttiva, così da permetterci di fare le nostre valutazioni.
L’acquisto del cibo direttamente dai produttori (rispettandone anche la stagionalità), i mercati a filiera corta, le nuove forme di scambio e di baratto, il recupero socioagricolo delle terre confiscate alle organizzazioni malavitose, la scelta di una banca sulla base di valori eticamente condivisibili, sono alcuni esempi di esperienze alternative, critiche, basate «sull’inclusione, la solidarietà e la collaborazione per il bene di una collettività e il rafforzamento della coesione sociale»7, agendo contemporaneamente a livello culturale, economico e politico.
Può così svilupparsi uno «stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo» (LS, n. 222); uno stile di vita condiviso, sociale e ad alta valenza educativa, anche perché testimone di una crescita nella sobrietà, recuperando la capacità di apprezzare e stupirsi di tutto ciò che ci circonda e imparando a «godere con poco» (
cfr LS, n. 223).
Privato vs collettivo
«La cura per la natura è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere insieme e di comunione» (LS, n. 228). Desideriamo qui approfondire la dimensione collettiva di alcune buone pratiche nella ricerca di soluzioni a problemi socioambientali. Nella pedagogia del vissuto concreto della Laudato si’ si fa menzione delle associazioni che si prendono cura dell’ambiente naturale e urbano, per custodire o rinsaldare così i legami sociali (cfr LS, n. 232). Oltre a ciò vi sono esperienze innovative, ormai consolidate, che riguardano il modo di vivere le nostre città europee, come ad esempio la condivisione sempre maggiore di beni per soddisfare il bisogno di mobilità: bike e car sharing sono le più diffuse e consentono di svincolare l’utilizzo di un mezzo (bicicletta o automobile) dalla sua proprietà. Meno conosciute sono le innovazioni nei rapporti delle persone tra loro e con l’ambiente nei sistemi locali, come gli ecovillaggi e le transition towns. I primi sono comunità insediate in ambienti rurali o a bassa densità abitativa, dove il grado di condivisione relazionale e materiale esprime uno stile di vita attento agli altri e all’ambiente; pur non essendoci un omogeneo orientamento filosofico e organizzativo, tutti gli ecovillaggi tendono verso un modello di vita responsabile, a basso impatto ambientale e sostenibile dal punto di vista ecologico, socioculturale ed economico.
Negli Stati Uniti sono circa 2mila, 250 tra Regno Unito e Irlanda, poche decine in Francia e Spagna, mentre in Italia le comunità affiliate alla RIVE (Rete italiana villaggi ecologici, <www.ecovillaggi.it>) sono una trentina. Le transition towns sono quartieri (come lo Statuto di Firenze) o città (ad esempio San Francisco) che intraprendono percorsi di cambiamento con l’obiettivo di ridurre l’impatto energetico del loro funzionamento, allontanandosi sempre più da modalità di approvvigionamento energetico basate sull’impiego di fonti fossili e aumentando il livello di resilienza delle proprie comunità8. Alla base vi è la scelta di non assistere inermi al cambiamento climatico e al deterioramento ambientale, con una consapevolezza: «se aspettiamo i governi, sarà troppo poco e troppo tardi; se agiamo individualmente, sarà troppo poco ma se agiamo come comunità, potrebbe essere quanto basta e giusto in tempo»9. Attualmente in Italia sono attive un centinaio di realtà “in transizione” (le più consolidate si trovano in Emilia Romagna e in Toscana), mentre la rete mondiale conta esperienze in tutti i continenti (Transition Town Network, <www.transitionnetwork.org>). L’organizzazione prevede un percorso con un alto livello di coinvolgimento degli abitanti, vengono individuati i temi oggetto della transizione (cibo, rifiuti, energia, educazione, acqua, trasporti, ecc.), sui quali sviluppare azioni visibili sul territorio, anche partecipando a progetti sostenuti dalle amministrazioni locali, quali ad esempio il Piano d’azione per l’energia sostenibile (PAES), che ha l’obiettivo di tradurre in azioni locali il piano energetico europeo di riduzione della CO2 del 20% entro il 2020.
Oltre a questi esperimenti sociali, vi è l’ampio universo dei network digitali, che costituiscono un volano favorevole allo sviluppo di pratiche collettive. L’antropologa digitale Stefana Broadbent è convinta che «l’intelligenza sia per sua natura sociale e che le acquisizioni culturali dell’uomo siano sempre frutto di un’interazione. Queste ultime però hanno bisogno di quello che chiamo “artefatto”, un luogo dove depositarsi ed essere elaborate: oggi sono i mezzi digitali»10. Così è nata la piattaforma on line «If you want to» (al momento <
beta.iywto.com>, definitiva da agosto 2016), dove condividere progetti per contrastare i cambiamenti climatici attraverso idee suddivise per tema, come ridurre lo spreco dell’acqua, misurare la qualità dell’aria, scegliere l’energia pulita.
Un nuovo inizio
Tutti questi esperimenti sociali indirizzati al consumo critico e all’utilizzo collettivo di beni sono contagiosi, «diffondono un bene nella società che sempre produce frutti al di là di quanto si possa constatare», ma soprattutto ci permettono «di sperimentare che vale la pena passare per questo mondo» (LS, n. 212). Si tratta di pratiche in grado di costruire legami e relazioni orientati all’inclusione e alla coesione sociale, «intesa come un processo, una “abilità” che una società rigenera continuamente. […] Sostenere la coesione sociale significa infatti valorizzare le relazioni tra i membri della società e promuovere l’assunzione collettiva di responsabilità, percependo i problemi come comuni»11. Certo, superare l’inerzia e la passività per dare forma a un nuovo inizio verso un modello relazionale che promuova non solo la soluzione di problemi socioambientali, ma una cultura dell’incontro e della solidarietà, non è facile. Eppure è possibile, prima di tutto narrando e condividendo le buone pratiche che faticano a trovare adeguato spazio mediatico. Ma c’è un altro atteggiamento indispensabile alla diffusione di nuovi stili di vita comunitari: il dialogo. Fin dalle prime righe dell’enciclica, papa Francesco si propone «specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune» (LS, n. 3), per poi ribadirlo in molteplici passaggi del testo: un dialogo che sia «intenso e produttivo» (LS, n. 62) «con tutti per cercare insieme cammini di liberazione» (LS, n. 64); delineando «grandi percorsi di dialogo che ci aiutino a uscire dalla spirale di autodistruzione in cui stiamo affondando» (LS, n. 163); un dialogo tra scienza e religione, politica ed economia, nella politica internazionale come in quelle nazionali e locali; proseguire sulla strada del dialogo richiede «pazienza, ascesi e generosità» (
cfr LS, n. 201). Il dialogo coinvolge tutti i livelli: politici e della società civile; internazionali e locali. Papa Francesco continua a ricordarcelo, con il suo stile di dialogo che non è solo ascoltare e parlare, non si riduce a un faccia a faccia, ma diviene «relazione fatta di gesti e di azioni concrete. Dialogare significa incontrarsi e fare insieme delle cose. Non è possibile instaurare un dialogo senza fare qualcosa insieme e senza vivere una prossimità»12.
Senza dialogo e confronto gli sforzi comunitari per intraprendere itinerari di cura della nostra casa comune diverrebbero sterili. Il sinonimo di dialogo che meglio si presta a papa Bergoglio e alla diffusione di questi nuovi stili di vita potrebbe essere “cooperazione”, «perché a differenza del termine “dialogo” e in particolare “dialoghi” […], esse non sono dei giochi a somma zero; i termini “interazione” e in particolare “cooperazione” costituiscono un gioco in cui non ci sono né vincitori né vinti. Dalla cooperazione ciascuno viene fuori arricchito dall’esperienza che ogni partecipante porta nel dialogo»13.
Mettere in relazione ciò che il progresso umano, sociale e culturale ci permette di conoscere, ma soprattutto metterci in relazione costituisce l’antidoto alla solitudine per dare fiato alla speranza.