Kaushik Basu mercoledì a Trento. Secondo il capo economista dell’istituzione «ci siamo fidati troppo della cosiddetta “mano invisibile” del mercato». (Scopri di più su:
http://www.greenreport.it/news/economia-ecologica/banca-mondiale-la-disoccupazione-tecnologica-serve-un-reddito-universale/)
La Banca mondiale produce molte interessanti analisi economiche. Forse addirittura troppe, cosicché non sempre vengono lette e assimilate. Kaushik Basu, presidente eletto dell’International economic association, capo economista e senior vice-president della Banca, intervenendo ieri a Trento ha scelto dunque di portare un messaggio sintetico quanto dirompente: «In passato – ha detto Basu – ci siamo fidati troppo della cosiddetta “mano invisibile” dell’economia, in realtà i meccanismi di mercato funzionano bene, ma c’è bisogno dell’intervento dello Stato e della società civile, altrimenti le disuguaglianze aumenteranno, perché le nuove tecnologie stanno riducendo i fabbisogno di manodopera. Dobbiamo rivedere la struttura dell’economia mondiale».
Come? Una certa quota degli utili e dei profitti dovrebbe essere redistribuita e data alle persone più povere, che perdono il lavoro a causa dell’avanzare delle tecnologie, come una sorta di reddito universale. Un’idea oggi utopica, ha ammesso Basu, ma forse l’unica che potrebbe realmente invertire la tendenza in atto ormai in ogni angolo del nostro mondo globalizzato, Italia compresa. Per avere un’idea di quanta strada ci sia ancora da fare basta osservare le contraddizioni dei pulpiti dai quali arrivano i suggerimenti. Il personale della Banca mondiale, come quello dell’Onu o del Fmi ha stipendi «esenti da prelievo fiscale», come ha dichiarato Christine Lagarde al giornalista della Bbc Stephen Suckur (e riportato in Italia dal Corriere della Sera). Eppure, ciò non toglie che le osservazioni portate da Basu meritino quanto mai urgente attenzione.
Dedicata al tema
“I luoghi della crescita”, l’undicesima edizione del Festival dell’economia di Trento si è aperta ufficialmente mercoledì (il sipario calerà domenica 5 giugno) e ha già lasciato molto su cui riflettere. Tra gli interventi di spicco, oltre a quello di Basu, rientra certamente quello dell’economista italiano – docente presso l’università della California, Berkeley – Enrico Moretti, nome noto anche dalle parti della Casa Bianca. Moretti nel suo intervento ha presentato un’altra faccia dell’economia dell’innovazione, quella fatta di opportunità.
Perché in un solo Paese, per quanto vasto come negli Stati Uniti, metropoli come San Francisco o Boston hanno salari medi fra gli 80 e i 100 mila dollari annui, mentre altre città – come Merced o Yuma – viaggiano su salari praticamente dimezzati, fra i 50 ed i 60 mila dollari/anno? Per trovare una risposta, Moretti guarda a un dato: le prime hanno tassi di laureati attorno al 50%, le altre sono poco sopra il 10.
«Dove il capitale umano è maggiormente scolarizzato – ha spiegato l’economista – si registrano picchi di produttività e di Pil più alti. Queste differenze fra aree geografiche non stanno scomparendo, ma anzi il divario continua ad aumentare, anno dopo anno le regioni e le città più forti diventano sempre più forti e le più deboli lo sono sempre di più. Nel mercato del lavoro, diminuiscono i numeri di posti di lavoro a bassa scolarità e aumenta il numero di quelli ad alta scolarità. Le economie in producono beni innovativi e non riproducibili e non possono essere delocalizzati, anche perché i lavoratori sono in media più produttivi e creativi».
«A monte – ha aggiunto – ci sono due forze profonde e strutturali che sono il progresso tecnologico e la globalizzazione. Forze che hanno effetti diversi, in alcuni paesi hanno aumentato la domanda di lavoro, in altri avuto l’effetto contrario, diminuendo la competitività». Ecco perché i fattori che determinano la produttività, oggi, sono «soprattutto la scolarizzazione dei lavoratori, la loro creatività e l’investimento in innovazione».
Come noto, sotto questo profilo il nostro Paese non è messo benissimo. Singole eccellenze sono diffuse sui territori, ma complessivamente il sistema rimane debole. I nostri ricercatori – quelli che sono rimasti dopo aver concluso la loro formazione – vantano livelli di produttività altissimi, ma
la spesa totale in ricerca sul Pil è ferma all’1,29% (dato 2014), quando la media Ue viaggia attorno al 2%. Cambiando profilo d’osservazione,
il 14,7% dei giovani italiani si fermato dopo aver terminato le medie inferiori, e su 75 milioni di Neet (giovani che non studiano, lavorano e non sono inseriti in un percorso di formazione) stimati al mondo,
2,4 sono italiani.
Questo è probabilmente sia causa sia conseguenza di un quadro generale che vede il Paese con
un quarto delle famiglie a rischio povertà, e 4 milioni di persone già intrappolate nella piaghe della povertà assoluta. In compenso, se nel mondo la diffusione di robot industriali ne vede
66 ogni 100mila operai, da noi – che vantiamo realtà d’eccellenza nella produzione di queste macchine – sono circa il doppio.
«La crescita nei settori dell’innovazione – nota Moretti – fa crescere anche il resto del mercato del lavoro. Ogni posto di lavoro in quest’ambito ne produce 5 nei settori dei servizi locali, per lavoratori con bassa scolarità». Se è certamente vero che l’Italia deve spingere molto sul pedale dell’innovazione per non ritrovarsi ai margini dell’economia mondiale, l’evidenza parla di disuguaglianze crescenti e della necessità di pensare a quanti – sempre di più – rimangono indietro. Gli interventi individuati dal governo nell’ultima legge di Stabilità, come ha già avuto modo di argomentare la sociologa Chiara Saraceno, sono del tutto insufficienti. Un altro grande sociologo, il compianto Luciano Gallino, sulle nostre pagine sottolineava
la necessità di guardare a un lavoro minimo, ancor prima che a un reddito minimo.
Lo stesso Basu, chiudendo nel suo intervento, ha criticato il pensiero economico dominante, suggerisce di approfondire quale potrebbe essere oggi la natura e il ruolo dell’intervento pubblico per raddrizzare le storture dell’economia. La risposta ancora non c’è, ma se vogliamo raggiungere un modello di sviluppo sostenibile non possiamo rinunciare a cercarla.