Da un po’ di tempo ho a che fare, per ragioni diverse, con materiali legati alla montagna e con persone che la frequentano al ritmo dei propri passi e con il fiato dei propri respiri. Da un po’ più di tempo ormai sono profondamente convinta che la montagna non sia semplicemente “natura da esplorare” per lavoro o per diletto, ma sia piuttosto, in maniera intrinseca ed essenziale, luogo reale e figurato di cultura e relazioni, di espressione non solo di abilità fisiche e sportive, fotografiche o naturalistiche, ma anche e soprattutto di visioni del mondo, di pensieri e convinzioni. La battaglia di cui vi racconto oggi ne è l’esempio perfetto, che prepotentemente solleva questioni aspre e difficili alle quali, anche se vi sarà chiaro “da che parte sto”, è giusto lasciare spazio per le perplessità e le sfumature che arricchiscono noi e la riflessione stessa.

Vi do le coordinate geografiche: Jumbo Valley, distretto di East Kootenay, nel sud-est della British Columbia, tra Vancouver e Calvary, Canada. Un’area che si estende tra Montana, Alaska e Oceano Pacifico e che rimane una delle poche al mondo così profondamente incontaminate e selvagge, la cui eccezionale ricchezza in termini di biodiversità e territorio la rende evocatrice di immaginari paradisiaci. Vi invito ad ammirarne qualche scorcio sul vostro motore di ricerca prima di dirmi che sto esagerando. Questo però è un paradiso in terra, di conseguenza inevitabilmente in pericolo. Cerco di riassumere, in breve, la partita che dura da oltre 25 anni e che, nonostante la complessità della vicenda, vede appena due schieramenti protagonisti.

Da un lato il grandioso progetto architettonico di un italiano di Vancouver, Oberto Oberti, supportato dall’imprenditore Grant Costello e da una parte delle istituzioni, che prevede la creazione di un complesso sciistico di 6000 ettari nel cuore delle Purcell Mountains, corredato da impianti di risalita, centri commerciali e strutture ricettive. Il progetto si vende bene, promettendo la promozione di posti di lavoro e di attività legate al turismo. Due uomini che hanno fatto del loro “Jumbo dream” una causa per la vita.

Dall’altro il 90% della popolazione supportata da ambientalisti, membri del governo e alpinisti che, da più di un quarto di secolo, si spendono invece per un “Jumbo wild”. Considerano in prima battuta gli aspetti economici e lavorativi, e ritenengono l’offerta inutile perché sproporzionatamente superiore alla domanda. Ma, anche e soprattutto, presentano ricorsi e organizzano manifestazioni e campagne perché dell’area venga preservato lo stato attuale. Cuore promotore dell’opposizione sono i Ktunaxa, popolo indigeno del Nord America che in quell’area vive da oltre 400 generazioni e che può vantare sul territorio una delle più leggere impronte ecologiche a livello mondiale.

Nel film prodotto dal marchio Patagonia a supporto della causa “Keep it wild”, scorrono emozioni mentre si racconta la storia di questa pluriennale contesa. Oberti ammette l’intenzione di far diventare la Jumbo Valley la sua cattedrale, un capolavoro di architettura che renda lo sci tra le innevate curve di questo territorio free and at hand, in pratica accessibile a chiunque. Ironizzando sulle (vere o presunte) intenzioni filantropiche di Oberti, il portavoce dei Ktunaxa, Joe Pierre, ribatte secco che il suo popolo “non vuole monumenti e non ne è mai stato costruttore”, interrogandosi su quanto sia invece “ridiculous” che la popolazione (umana e animale) che abita questo territorio da centinaia d’anni sia costretta a dover provare il proprio diritto alla terra. Quale diritto? Quello di difendere un luogo sacro per cultura e storia, scelto dagli spiriti dei grizzly per ritornare a danzare, un luogo di profonda rilevanza per la spiritualità dei Ktunaxa/Qat’muk (qui la dichiarazione che ne racconta le ragioni), ma anche e soprattutto un luogo sacro per un ecosistema unico al mondo, la cui sopravvivenza è messa in serio pericolo da quelle che potremmo chiamare senza mezzi termini le “fratture dello sviluppo”, che sovvertono equilibri delicatissimi in virtù del profitto. Ma forse non solo.

Qui entrano in gioco le considerazioni che mi accompagnavano mentre raccoglievo informazioni sulla questione e che si annodano intorno ad altre domande, che hanno a che fare con la montagna più in generale, e forse anche un po’ con la democrazia. Perché in effetti la montagna è intrinsecamente democratica, anche se per sua stessa natura opera una scrematura naturale in termini di accessibilità e gradi di difficoltà. Cosa succede però se questa democrazia in potenza viene distorta in una sorta di “democrazia dell’accessibilità”, e la montagna diventa improvvisamente e di fatto per tutti e di tutti, senza gradazioni? Esiste la possibilità di una mediazione oppure la montagna va custodita anche a rischio che diventi un oligarchico spazio di pochi? Quando i territori sono selvaggi e inaccessibili, renderli accessibili e quindi condivisi è un valore da perseguire sopra ogni cosa, a favore di una maggiore diffusione di opportunità e anche a scapito della salvaguardia ambientale? Oppure si tratta di un capriccio per un temporaneo profitto, che alimenta tra l’altro anche l’abitudine al “risultato senza fatica”? Poter arrivare anche là dove le nostre sole forze non ci consentirebbero altrimenti di giungere è un diritto acquisito grazie al progresso (vedi improbabili stazioni sciistiche popolate da persone in mocassini) o deve rimanere un diritto guadagnato, il traguardo di un allenamento costante e curato?

Bruce Kirkby, giornalista, interviene nel dibattito sostenendo che “la questione della Jumbo Valley è l’emblema delle domande più pressanti che investono la nostra società: abbiamo superato ogni frontiera, e le decisioni che dobbiamo prendere sono estremamente difficili quando sul piatto della bilancia del nostro futuro dobbiamo mettere da un lato lo sviluppo economico e dall’altro la conservazione dell’ambiente e delle risorse e la loro protezione”.

Provo a concludere (l’articolo e non le riflessioni) con un pensiero che mi porta inequivocabilmente verso una direzione che mi sento di confermare e che cito dal libro Non ti farò aspettare, nel quale l’alpinista Nives Meroi scrive: “Fino a poco tempo fa, “alpinismo” voleva dire espressione libera come il gioco, aperta alla fantasia, al coraggio nel cercare nuovi percorsi e anche al coraggio della rinuncia e dell’insuccesso. Pulito, leggero, fondato sull’autosufficienza fisica e psicologica e sull’approccio consapevole al pericolo; insomma un confronto aperto con la montagna e con se stessi. Quell’alpinismo […] quasi non esiste più, perché oggi, affetto da un esasperato bisogno di vincere e una paura viscerale di fallire, quello che cerca è spesso soltanto un’adeguata organizzazione, in grado di ridurre al minimo le possibilità dell’insuccesso, per raggiungere un obiettivo il cui valore non è calcolato in qualità ma in quantità.

L’accessibilità - e dunque i progetti che ne fanno un proprio obiettivo - è di certo un fattore inclusivo e in linea di massima positivo, che rende accoglienti un territorio e una comunità. Ma lo può essere solo se non diventa dissacrante e se procede di pari passo con l’educazione e la tutela ambientale, l’allenamento al rispetto dei luoghi e dei propri limiti, la consapevolezza del proprio corpo e dei traguardi che può farci o non farci raggiungere, la coscienza che siamo sempre e comunque ospiti in temporaneo passaggio.

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