Lentezza come educazione al rallentamento del corpo, ma ancor prima come ridimensionamento dell’iperattività cerebrale, del bombardamento neuronale, come conquista sull’affaticamento dei sentimenti, sull’azzeramento emozionale. Un'intervista a Marco Boschini, uno degli ideatori ed organizzatori del Festival della lentezza. (Scopri di più su: https://www.che-fare.com/festival-lentezza-comunita/)
Se a Colorno ci arrivate in macchina vi può capitare di imbattervi in un’indicazione stradale a fondo bianco (di quelle turistico-ricettive, per intenderci) che dice “Versailles”. È un’analogia che può sorprendere. Certamente è facile che apra nell’immaginario dell’ignaro passante interrogativi su ipotetiche connessioni. A indagarle si scoprirebbe, per esempio, che la reggia di Colorno è effettivamente nota ai più come “la piccola Versailles”. Petite Versailles.

Sì, perché quando Filippo di Borbone, a metà ‘700, prese possesso del locale palazzo ducale, decise di affidare i lavori di ristrutturazione degli interni e di progettazione dello scalone e del giardino a due architetti francesi, François Antoine Carlier e Ennemond Alexandre Petitot, affinché l’ambiente potesse ricordare alla moglie Luisa Elisabetta, figlia prediletta di Luigi XV, l’amata Reggia di Versailles.

Studiando la storia di questo palazzo, scopro che la sua beltà e il suo prestigio si intersecano con la bellezza e l’eleganza di altre figure femminili di rilievo. Prima tra queste Barbara Sanseverino regista vera della trasformazione, fra ‘500 e ‘600, della rocca in dimora signorile: la elevò a corte di indiscusso rilievo culturale grazie anche alla prestigiosa collezione di dipinti di Tiziano, Correggio, Mantegna e Raffaello che lei stessa curava con passione e premura.

Mi piace pensare a queste donne come matrici di un pensiero che nella Colorno odierna prende forma attraverso il Festival della Lentezza che trova in queste stanze e in quel giardino espressione di un rinnovato senso di godimento aristocratico del tempo.

Lentezza come educazione al rallentamento del corpo, ma ancor prima come ridimensionamento dell’iperattività cerebrale, del bombardamento neuronale, come conquista sull’affaticamento dei sentimenti, sull’azzeramento emozionale. È l’osservazione di un mondo che abitiamo e che è lì ad osservare noi.

Ci scruta con un fiato pacato. Malauguratamente, però, non tutti possiamo vantare un nonno Ottaviano pronto a insegnarci il respiro degli alberi come quello raccontato da Angela Nanetti (“Mio nonno era un ciliegio”, Einaudi Ragazzi, 1997). Tuttavia, attraverso la penna di quest’autrice, anche a noi è concesso di sorprendere questo signore sotto il ciliegio Felice durante il suo rituale riposo, guadagno d’onore dalle fatiche dei campi, per sentire il suo braccio, anziano e forte, cingerci le spalle. Quel braccio attorno alla nostra spalla serve a farci vedere tenendo gli occhi chiusi, a farci guardare attraverso suoni e odori, usando la nostra immaginazione che è archivio reale e immaginifico di quello che siamo riusciti a fermare e a sedimentare nel tempo vissuto con lentezza in quello stesso mondo che ora ci accingiamo a ri-creare.

Sì, c’è un fare nobile in questo modo contadino che lo connette, nella poetica, all’antica aristocrazia e che nulla ha a che fare con l’ossessione del tempo produttivo ad ogni costo della vicenda borghese.

Il Festival della Lentezza, quest’anno dedicato alla poetica della donna, è soltanto alla sua seconda edizione ma promette già molto bene e, siamo certi, crescerà in modo sano e comunitario. Ne ho parlato con uno dei suoi ideatori ed organizzatori, Marco Boschini.

Colorno, mi spiega, è un paese della provincia parmigiana in cui le carenze oggettive di spazi e attività per i più giovani sono compensate da un benessere generale della comunità e da una vitalità istituzionale e associazionistica. Il suo alto livello di vivibilità e attenzione ai principi della sostenibilità e dell’accoglienza l’ha portata ad essere tra le località fondatrici di Comuni virtuosi, un’associazione di cui presto torneremo a parlare più approfonditamente. Siamo in quello spazio del pensiero umano e della pratica civile che riesce ancora a vedere in un territorio vivibile soprattutto un territorio a misura di persone più che di cose. Giusto. Bello.

Il Festival nasce in seno e in stretta relazione con Comuni virtuosi ed esiste grazie al lavoro di Marco Boschini (ass. Comuni Virtuosi, ex educatore), Monica Arcadu (psicologa), Franco Bassi (consulente del lavoro) e Alberto Monteverdi (comunicazione web) e al supporto di un folto gruppo di cittadini e associazioni.

La lentezza. Perché dedicare un festival e la sua intitolazione proprio alla lentezza?

Perché il tema della gestione del tempo, sia da parte dei singoli cittadini che delle comunità intese come enti locali e istituzioni, è un tema fondamentale secondo noi. Pensiamo che da una riappropriazione del tempo da parte delle comunità locali passi il cambiamento che poi è la somma delle nostre buone pratiche. Non può esserci un progetto ambientale se non c’è anche una comunità che si prende il tempo di idearlo, di costruirlo, di immaginarlo. Dunque il tempo dilatato è il filo conduttore di un progetto che stiamo portando avanti ormai da undici anni.

La scelta di dedicare questa edizione in particolare al tema della donna e alla gestione del suo tempo mi ha piacevolmente incuriosita e ha inevitabilmente aperto delle riflessioni. Ti chiedo, con una punta di ironia, è stata una donna a proporlo? Come nasce l’idea e quante donne partecipano all’ideazione del festival?

C’è Monica Arcadu, ma poi nel ragionare intorno al festival c’è un coinvolgimento del comitato direttivo dell’associazione Comuni Virtuosi che ha una presenza femminile. Poi all’interno del festival ci sono diversi momenti di incontro con le donne, sia come relatrici che come momenti laboratoriali. Quella delle donne è una presenza molto significativa.

Alla fine della prima edizione, l’anno scorso, abbiamo deciso di dare a ogni edizione un’idea poetica nuova per fare in modo che il festival potesse ogni anno riprendere vita senza ripetersi. C’era l’esigenza da subito di rinnovarsi nella continuità immaginando un sottotema che in qualche modo fosse collegato al macrotema. La volontà di occuparci della donna è emerso quasi subito proprio per quel ragionamento intorno al tempo. Secondo noi, dato il modello attuale, cioè questo modello di sviluppo forsennato che ci vuole sempre di corsa e sempre in ritardo, la donna vive doppiamente in sofferenza questo momento.

Avrebbe tutti gli strumenti emotivi per essere più lenta (specifico che per noi l’accezione di lenta è in senso positivo, non negativo) e andare più in profondità e invece è doppiamente fregata da un contesto e un’organizzazione quotidiana sovraccaricata dai mille rivoli di impegni che la sovrastano. Su questo abbiamo provato a costruire un programma che provasse a mettere in discussione questo ragionamento e provasse anche a dare degli strumenti per poter uscire da questo ricatto.

Come è avvenuta la scelta degli ospiti di questa edizione del festival?

Tendenzialmente si cerca di essere più coerenti possibile con la linea poetica del festival. Poi ci possono essere delle linee che si discostano apparentemente da essa ma che in realtà si connettono in generale al tema della lentezza. Per esempio Mauro Corona ha molto da dire rispetto a questo, al vivere la natura, il paesaggio, il territorio in un modo diverso rispetto a quello che conosciamo. Si cerca, inoltre, di tenere conto del fatto che avere almeno, per ogni giornata, un nome di richiamo aiuta il festival a rendersi visibile, a crescere, a portare gente.

Chiarisco che per scelta non facciamo pubblicità. Faremo alcuni passaggi sui social network ma il lavoro che stiamo cercando di portare avanti è un lavoro di comunità. Quindi tutto il ragionamento intorno all’idea di portare le famiglie, di fare molti laboratori anche per i bambini, di cercare di costruire un programma che ogni giorno consenta davvero a tutte le componenti di una famiglia di essere lì, di stare lì, e di poterlo fare con serenità, con tranquillità, è un lavoro che richiede tempo, che ogni tanto ha delle sbavature, ma che è necessario e prescinde da propagande pubblicitarie.

L’obiettivo è arrivare in un paio di anni a un festival che sia totalmente in linea con l’idea poetica e forte abbastanza per poter eventualmente rinunciare al nome di richiamo.

L’amministrazione locale interviene? Se sì, in che misura lo fa?

L’anno scorso è intervenuta con la messa a disposizione di spazi, di personale tecnico (operai per l’allestimento e lo smontaggio del festival), di servizi elettrici. Tutto in forma gratuita. Quindi l’amministrazione ha un ruolo fondamentale. Per questa edizione, inoltre, ci dà un contributo di natura economica, piccolo ma essenziale. In più quest’anno grazie al Comune di Colorno e ad altri due Comuni della provincia di Parma, anch’essi soci dell’associazione, cioè Busseto e San Secondo Parmense, abbiamo presentato una domanda alla Regione Emilia Romagna tramite un bando legato alla L.R. 37/94 con una richiesta di finanziamento che, se dovesse essere approvata, ci consentirà di abbattere significativamente i costi che oggi ricadono completamente sulle spalle dell’associazione.

A proposito di costi e finanziamenti, si è da poco chiuso il crowdfound che avete lanciato e che è andato anche molto bene, mi pare, no?

Sì, è andato bene. Ovviamente il crowdfounding non è sufficiente a coprire il budget del festival che ha delle spese che si aggirano intorno ai 40 mila euro, però ci ha dato una mano anche a veicolare la notizia del festival, ad allargare la rete dei potenziali volontari, a farci conoscere. Quindi è servito soprattutto da quel punto di vista.
Ultima domanda. Come ha risposto la comunità nella precedente edizione del festival?

La comunità di Colorno devo dire bene. Da un punto di vista della partecipazione, come spesso accade in questi casi, sono state di più le persone che venivano da fuori, cioè dall’ambito regionale e, per gli appuntamenti più mainstream, come il concerto di Capossela, da tutto il nord Italia, cosa prevedibile d’altronde. Invece, a livello associativo e di realtà organizzate all’interno della comunità sono rimasto piacevolmente stupito: sono stato assessore di Colorno per dieci anni e ho trovato più resistenza al coinvolgimento allora – forse per la diffidenza verso le istituzioni – che ora per il festival. Con il festival c’è stata molta più disponibilità a mettersi in gioco. Penso ad esempio al circolo Colors light, un circolo fotografico amatoriale, che l’anno scorso è stato presente durante i tre giorni con una ventina di volontari che hanno documentato fotograficamente il festival aiutandolo anche sul versante della comunicazione in maniera del tutto gratuita e volontaria. Altre realtà hanno contribuito prestandoci le sedie, oppure i gazebo e via dicendo. Insomma c’è stata una collaborazione effettiva.

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