Il 7 aprile ero negli studi di Uno Mattina, la trasmissione di Rai1 che ha aderito sin dall'inizio alla campagna "Verità per Giulio Regeni" di Amnesty International Italia. (Scopri di più su: http://it.gariwo.net/editoriali/in-memoria-di-un-giusto-giulio-regeni-14921.html)
Secondo la scaletta, il mio intervento in diretta sarebbe stato preceduto da un'intervista rilasciatale da Alaa al-Aswamy, che reputo il più grande scrittore egiziano vivente.

Essere in uno studio televisivo a commentare le parole, ancora a me sconosciute, dell'autore di opere monumentali quali Palazzo Yacoubian o Cairo Automobile Club già era motivo di emozione. E poi quelle parole sono arrivate.

Parole di grande ammirazione per Giulio, per le ricerche che stava facendo in Egitto. Persino un dialogo che oggi suona paradossale, sul suo desiderio di scrivere per il manifesto (non particolarmente ricambiato, come sappiamo) e l'apprezzamento di al-Aswany ("Bello, sai che anche io sono di sinistra!")

Questa era la purezza, l'essere giusto di Giulio: una persona senza retropensieri e senza difese. Il bersaglio perfetto. Fosse stato al soldo di qualche interesse o di qualche stato (già, in Italia c'è questo vizio di insultare, deridere e "sporcare" chi rischia la morte o chi muore all'estero perché vuole conoscere il mondo, svolgervi inchieste, ricerche, portargli solidarietà: Ilaria Alpi, Ezio Baldoni, Giuliana Sgrena, le Simone, Vanessa e Greta, Giovanni Lo Porto...), alla prima avvisaglia di smascheramento della copertura, sarebbe tornato a casa.

Invece, Giulio si sentiva minacciato ed era, come sappiamo, preoccupato ma non aveva la completa percezione di aver varcato la "linea".

Uso questa espressione per definire il confine tra ciò che è lecito o comunque tollerato e ciò che non lo è. Sotto Mubarak quel confine era abbastanza chiaro, sotto al Sisi è diventato mobile. Giornalisti, blogger, difensori dei diritti umani, medici, scrittori, fumettisti, fotografi, ricercatori: tutti, inconsapevolmente, possono finire oltre quella linea ed essere considerati una minaccia, un nemico.

L'8 aprile il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha disposto il richiamo temporaneo dell'ambasciatore italiano al Cairo. Un gesto necessario e tempestivo, di fronte alla palese indisponibilità della magistratura egiziana di collaborare alla ricerca della verità sull'arresto, la sparizione, la tortura e l'assassinio di Giulio.

Una costante emerge, infatti, dalle ricostruzioni sin qui fornite dalle autorità del Cairo: il tentativo di esonerare le istituzioni da ogni responsabilità (un atto contro le buone relazioni tra Italia ed Egitto, un incidente stradale, una festa terminata male, una rissa per motivi personali fino alla banda di criminali xenofobi), col corredo di offese e dileggio nei confronti di Giulio.

E invece, l'omicidio di Giulio va inquadrato lì dove deve stare: nel contesto di negazione sistematica dei diritti umani. Altro che caso isolato, altro che vicenda di cronaca nera...

I dati forniti dal Centro El Nadeem per la riabilitazione delle vittime della violenza e della tortura, una delle più autorevoli organizzazioni egiziane per i diritti umani, attiva dal 1993 e di cui il ministero della Salute ha ordinato recentemente e non casualmente la chiusura, lo confermano.

Secondo El Nadeem, nel 2015 vi sono stati 464 casi di sparizione forzata e 1176 casi di tortura, quasi 500 dei quali con esito mortale. Quest’anno in un solo mese, quello di febbraio, i casi di tortura sono stati 88, otto dei quali con esito mortale.

Le circostanze e la data della scomparsa (il quinto anniversario della “rivoluzione del 25 gennaio” 2011, coi precedenti segnati da militarizzazione e repressione), i metodi di tortura cui è stato sottoposto (gli stessi usati così spesso dagli apparati di sicurezza), l’indisponibilità a collaborare nella ricerca della verità, l’assegnazione iniziale delle indagini a un funzionario di polizia condannato nel 2003 per un caso di tortura mortale e in seguito accusato di aver torturato, incriminato per false accuse e ucciso manifestanti nel 2011, l'analogo destino cui sono andati incontro due attivisti egiziani scomparsi negli stessi giorni di gennaio: tutto questo ci dice che vi è la possibilità concreta che le forze di sicurezza egiziane siano responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni.

"Io so", scriveva Pasolini il 14 novembre 1974 a proposito di drammatiche vicende italiane. "Noi sappiamo", in milioni ormai, in Italia e in Egitto.

Ma non basta che noi sappiamo. Lo deve dire quello che noi sappiamo, riferendoci la verità, il governo del Cairo.

Quel governo che, inaspettatamente, si trova oggi di fronte un movimento indignato di uomini e donne, di famiglie di vittime di sparizione e di tortura, che sfidano la repressione (armata anche dall'Italia, unico paese dell'Unione europea ad aver inviato pistole e fucili in Egitto nel 2014 e 2015) indossando magliette con la foto di Giulio e la scritta "Uno di noi".

Considero Giulio un attivista per i diritti umani. Ha risvegliato le coscienze in Italia e le sta rincuorando e rendendo forti in Egitto. "Un ragazzo del futuro", come lo definisce mamma Paola. Anche per questo, un Giusto.

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