I divari tra generi e generazioni, che affliggono il nostro Paese, si traducono in minori opportunità per gli individui e per la società stessa. Attraverso il diversity management è possibile trasformare le differenze in risorse nel mercato del lavoro, nell’ottica della partecipazione e della cooperazione. (Scopri di più su: http://www.aggiornamentisociali.it/EasyNe2/LYT.aspx?Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento%3D14098)

Giacomo Costa

La società italiana e in modo particolare il mercato del lavoro continuano a essere segnati da importanti divari: è un dato noto, riconfermato ogni volta che vengono pubblicate comparazioni internazionali, e che soprattutto permane nel tempo. Le azioni intraprese per modificare la situazione, anche a livello politico, sembrano avere poca presa sulla realtà e produrre scarsi risultati.

Un primo caso è certamente quello dei divari di genere. Il Global Gender Gap Report 2015, pubblicato dal World Economic Forum lo scorso novembre, ci dice che per quanto riguarda la parità di genere all’interno del mondo del lavoro l’Italia occupa il 111° posto su 145 Paesi, a causa di una disoccupazione femminile del 13% (due punti più elevata di quella maschile), di una partecipazione femminile al mercato del lavoro del 54% (contro il 74% di quella maschile) e di un salario medio delle donne che lavorano pari a circa la metà di quello degli uomini. Gli ultimi 10 anni fanno registrare solo un miglioramento quasi impercettibile, per cui rimaniamo confinati nelle zone basse della classifica.

Certo, la questione del ruolo delle donne nella società non può essere ridotta al posto che occupano nel mercato del lavoro, ma resta vero che questo è un elemento strutturante della vita sociale. La fatica delle donne a entrare e restare nel mercato del lavoro segnala difficoltà più profonde, radicate nella conciliazione tra i diversi ruoli sociali occupati, in particolare quello professionale e quello familiare (di madre e, sempre più spesso, di figlia di genitori anziani e bisognosi di cure). La scarsa incidenza di un quadro giuridico di parità formale ci dice che il problema non si colloca solo sul piano normativo, che pure resta importante, ma affonda le proprie radici in quello culturale. Negli ambiti della politica, della famiglia, del lavoro, della formazione e dei media persistono stereotipi sessisti che in maniera indiretta agiscono come potenti ostacoli alla piena realizzazione delle donne e in questo modo perpetuano le disuguaglianze e le asimmetrie di genere.

Queste riflessioni vanno articolate con quelle su un’altra categoria che fatica ad essere valorizzata nel mercato del lavoro italiano: quella dei giovani. L’OECD Skills Outlook 2015, pubblicato dall’OCSE a maggio dello scorso anno, ci dice che l’Italia occupa l’ultimo posto tra i Paesi OCSE per quanto riguarda l’occupazione giovanile: appena il 52,8% dei giovani tra i 25 e i 29 anni ha un’occupazione, contro una media del 73,7%. Aumentano anche i giovani inattivi, i cosiddetti NEET, cioè coloro che non lavorano, non studiano (a scuola o all’università) né frequentano corsi di formazione. I Paesi OCSE ne contano 35 milioni e l’Italia è quello in cui sono più numerosi: nel 2013 rappresentavano il 26% del totale di coloro che hanno meno di trent’anni, contro una media OCSE del 15% e con un incremento di 5 punti percentuali rispetto al 2008. Come per le donne, anche nei confronti dei giovani sono all’opera stereotipi culturali, che ostacolano il riconoscimento delle differenze tra le generazioni e del contributo peculiare che ciascuna può dare.


Non dividiamo i divari

Ogni generazione è composta di uomini e donne, così come donne e uomini appartengono a generazioni diverse, ma i divari di genere e quelli generazionali sono spesso letti separatamente, trascurandone le intersezioni. Questo ostacola l’analisi delle analogie tra gli squilibri, in particolare nei meccanismi di esclusione di alcuni (donne e giovani) a vantaggio di altri (uomini e adulti) e occulta il parallelismo degli esiti, che resta probabilmente il dato più sconcertante. In una situazione critica dal punto di vista economico, l’Italia non riesce a valorizzare tutti i talenti di cui dispone e su cui spesso ha investito non poco in termini formativi: le attuali giovani generazioni sono quelle con la scolarità più elevata nella storia del Paese. Sembra ironico, ma questo è vero soprattutto per le giovani donne, che frequentano scuole superiori e università in percentuale maggiore dei loro coetanei. In Italia, il 53% di coloro che hanno ottenuto un dottorato è di sesso femminile.

Divari e discriminazioni nel mercato del lavoro si traducono in minori opportunità individuali per chi le patisce, ma a un altro livello è la società nel suo insieme a non sfruttare tutte le opportunità di cui dispone: il problema riguarda tutti, indipendentemente dalla posizione che occupiamo rispetto a divari e fratture. Autorevoli studi mostrano da tempo come il loro superamento si tradurrebbe in un aumento complessivo dell’efficienza, della produttività e della tanto agognata crescita.

Serve dunque un cambiamento, che, come abbiamo visto, riguarda innanzi tutto la cultura, a partire da quella agita sui luoghi di lavoro. Ci chiediamo se un approccio che non segmenti la questione dei divari – di genere, di generazione e non solo –, ma provi a tenerli insieme non possa risultare fecondo in termini di ricerca di soluzioni innovative e soprattutto di risorse per metterle in atto. In particolare, gli studi sociologici evidenziano come le attuali giovani generazioni siano portatrici di una visione del lavoro e della vita, di aspettative, motivazioni, aspirazioni potenzialmente in grado di far evolvere la cultura del sistema produttivo in cui si inseriscono, se questo si rivela disponibile al cambiamento.

In fin dei conti, superare i divari è questione di solidarietà, in questo caso tra i generi e le generazioni, oltre che tra le persone concrete che vi appartengono. Come è possibile mettere in moto questa solidarietà? Quali modelli di leadership potrebbero favorirla nel contesto aziendale, sociale, politico? Su quali risorse socioculturali possiamo contare? Nelle pagine che seguono cercheremo di rintracciarne alcune a partire da quanto già abbiamo: in primo luogo i diversi approcci alle questioni di genere, in specifico nel mondo del lavoro, che negli ultimi decenni hanno comunque ottenuto alcuni risultati e creato un’attenzione al tema su cui è possibile costruire; in secondo luogo, come dicevamo, le peculiarità della generazione che si sta affacciando al mondo del lavoro – crisi economica permettendo –, che è spesso caratterizzata con l’etichetta di millennials. Se c’è una collaborazione tra generi e generazioni, si potrà avanzare in maniera effettiva nella valorizzazione di tutti. O insieme, o niente!


Dalle pari opportunità alla gestione delle diversità

Nel corso degli ultimi decenni la questione dei divari, in particolare di genere, è stata affrontata a partire da una serie di approcci che non si succedono in una evoluzione lineare ma che si affiancano l’uno all’altro, specialmente quando la loro traduzione in dispositivi normativi e in assetti organizzativi ne fa permanere l’efficacia nel tempo, e potenzialmente possono anche completarsi a vicenda. Vale quindi la pena ricostruirne un quadro, pur sommario, per orientarci meglio tra gli strumenti che ci mettono a disposizione.
Un primo approccio fa riferimento al concetto di pari opportunità, inteso soprattutto in termini di uguaglianza giuridica e sociale fra uomini e donne. L’obiettivo è di porre le donne in condizione di parità rispetto ai colleghi uomini all’interno dell’ambito lavorativo. In concreto ciò si traduce in una serie di dispositivi volti ad assicurare alle donne la possibilità di compiere delle scelte relative alla vita privata e professionale senza essere discriminate, sia sul piano delle possibilità di progressione di carriera sia rispetto ai livelli retributivi. Le “quote rosa” o le “azioni positive” sono un esempio di applicazione di questo approccio. Pur importanti, le pari opportunità si scontrano spesso con un limite: collocandosi su un piano meramente normativo, una volta che ottemperano ai requisiti di legge, le imprese pensano di essersi liberate del problema, senza rimodellare cultura e processi organizzativi interni. Inoltre le pari opportunità hanno poca o nessuna presa su una serie di fattori di discriminazione che si collocano fuori dall’ambito aziendale, dai meccanismi di riproduzione culturale all’iniqua divisione delle responsabilità familiari.

Inoltre la preferenza per la logica giuridica e la traduzione normativa dei diritti è stata criticata come ulteriore fonte di discriminazione dei gruppi maggiormente svantaggiati, aprendo il dibattito sulla questione della “discriminazione attiva”. Si amplia quindi il concetto di discriminazione (e quindi anche di pari opportunità), che si sgancia dalla prospettiva di genere e si applica a qualsiasi comportamento che, direttamente o indirettamente, porti a distinguere, escludere, limitare o preferire una persona sulla base non solo del genere, ma anche dell’orientamento sessuale, dell’età, della religione o delle convinzioni personali, dell’origine etnica, delle condizioni di disabilità; essa ha lo scopo o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

L’evoluzione sociale conduce a vedere le differenze in chiave positiva e non solo come dislivelli da colmare: «Non pensiamo di annullare con un tratto di penna le differenze che esistono e che vanno considerate positivamente; mentre finora la nostra cultura imprenditoriale, sociale, sindacale, rivendicazionistica del movimento femminile è stata una logica di garanzia di parità, ora dobbiamo guardare alle pari opportunità come uno start up in una nuova prospettiva di valorizzazione delle differenze» (Porcelli M. et al., «Tavola Rotonda. La valorizzazione del potenziale femminile nelle organizzazioni», in Grecchi A. [ed.], Diversity Management. Valorizzare le differenze: nuovi modelli di pari opportunità, FrancoAngeli, Milano 2002).

Il diversity management (letteralmente: gestione della diversità), ancora poco noto e praticato nel nostro Paese, si propone come strumento di valorizzazione del potenziale femminile e delle differenze (culturali, di età, etniche, ecc.) in ambito aziendale, superando gli stereotipi del “maschile” e del “femminile”, che rischiano di innescare nuove forme di conflitto. C’è bisogno, invece, di alleanze, di trasformare le differenze in una risorsa, in un elemento di creazione di valore e vantaggio competitivo. Collocandosi nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa, il diversity management è un processo di cambiamento che punta a valorizzare il contributo peculiare di ciascun dipendente al raggiungimento degli obiettivi aziendali, con il risultato di rendere l’organizzazione più capace di far fronte alle sfide e alle incertezze provenienti dal mercato esterno. La chiave è offrire a ciascuno la possibilità di sviluppare e applicare sul luogo di lavoro le proprie capacità e competenze, specchio di genere, etnia, nazionalità, età, background socioculturale ed esperienza che lo contraddistinguono. Certo, per valorizzare la differenza, occorre prima riconoscerla, rispettarla e accoglierla, il che non è sempre scontato quando si è portatori di prospettive riduttive e ristrette. Serve un cambio di mentalità, una vera e propria conversione culturale, che va promossa con lungimiranza e adeguati strumenti.


Il contributo dei millenials

Queste prospettive diventano ancora più interessanti se incrociate con una migliore comprensione delle caratteristiche della generazione che in questi anni si sta affacciando sul mercato del lavoro e del consumo, cominciando a occupare ruoli di responsabilità anche a livello sociale e politico (in Italia più lentamente che in altri Paesi). Ad essa appartengono i cosiddetti millenials, termine che convenzionalmente comprende i nati negli ultimi due decenni del secolo scorso.

I pochi studi che si occupano di loro li descrivono come «la prima generazione globale, che al di là delle differenze linguistiche e culturali derivanti dalla propria localizzazione, condivide strumenti e possibilità di dialogo in grado di annullare qualsiasi distanza fisica e temporale» grazie al permanente accesso al mondo digitale (Martone D., I nuovi Dei dell’Olimpo dei Consumi: alla conquista dei Millennials. La Generazione Y Italiana a confronto con quella Europea e Mondiale, e-book, 2015). Tendenzialmente ottimisti rispetto al futuro, lo vedono non in una prospettiva di evoluzione lineare, secondo il tradizionale percorso studio-lavoro-matrimonio-figli-carriera-pensione, ma come una traiettoria sempre potenzialmente reversibile e aperta a una pluralità di opzioni: uscita e rientro nella famiglia di origine, mobilità geografica e lavorativa (anche tra ambiti professionali diversi), alternanza tra periodi di lavoro e di formazione anche in campi non strettamente collegati. Per molti versi sono cresciuti interiorizzando la flessibilità e la “liquidità” che segnano la società e la cultura contemporanea.

Ai nostri fini è particolarmente interessante il loro rapporto con il lavoro, come evidenzia la ricerca promossa dall’Istituto Giuseppe Toniolo, coordinata da Alessandro Rosina e pubblicata in La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2014 (il Mulino, Bologna 2014). I millenials non misurano il lavoro in termini di ore trascorse in un luogo, ma di risultato. Aspirano a un ambiente e a un clima di lavoro piacevoli e coinvolgenti. Per la grande maggioranza di loro i frequenti cambiamenti di committente non rappresentano un problema, così come l’adattarsi a orari prolungati e flessibili (incluso il lavoro festivo). In cambio, non sono disponibili a lasciar assorbire dal lavoro tutta la vita, ma ricercano un equilibrio soddisfacente; hanno esigenze irrinunciabili di formazione (cresce ad esempio la percentuale di coloro che pur avendo un lavoro continuano a studiare) e di una occupazione che esprima valori di utilità sociale. Questo li porta a cambiare frequentemente occupazione (il 60% dopo meno di 3 anni cerca una occupazione diversa) e a sperimentare esperienze diversificate, multitasking, che sfociano spesso nella creazione di un’attività autonoma a propria misura. Infine una grande maggioranza dei giovani si dichiara disponibile anche a lavori manuali, a prescindere dal fatto che siano più o meno coerenti con la preparazione posseduta, purché siano discretamente pagati.

Realismo, flessibilità e adattabilità caratterizzano i millennials italiani: sembrerebbero i lavoratori ideali per aziende alle prese con le esigenze sempre più stringenti di una competizione che si è fatta globale. I dati del mercato del lavoro sembrano però dire il contrario. Vale la pena provare a capire perché.


La prospettiva della collaborazione

La risposta sembra risiedere nel fatto che, oltre alle caratteristiche già segnalate, appetibili per le imprese, i millennials si mostrano portatori di una diversità che rende faticosa la loro interazione con le generazioni precedenti, quelle già inserite nel mondo del lavoro. Ad esempio l’abitudine connaturata alla logica social e alle interazioni in rete li rende “stranieri” a strutture burocratizzate e pesantemente gerarchiche e poco interessati a scalarne i molti gradini secondo la configurazione classica della carriera. Sembrano valutare il lavoro, e quindi sceglierlo ed eventualmente cambiarlo, non solo in base alla retribuzione economica, ma anche alla gratificazione personale, alle possibilità di crescita e di compatibilità con progetti di vita che includono anche altro: non rispondono quindi alle stesse logiche di incentivazione delle generazioni precedenti. Addirittura, il desiderio di plasmare il lavoro per meglio adattarlo alla vita può apparire come un lusso oltraggioso a chi è portatore della tradizionale ortodossia del posto di lavoro.

In sintesi, i millennials sono portatori di una diversità assai più elevata delle generazioni precedenti, che richiede di essere gestita per potersi trasformare in una risorsa imprenditoriale. Ma, come abbiamo visto, il diversity management richiede alle aziende la disponibilità a intraprendere processi di cambiamento, aprendo una struttura ancora fortemente individualista, parcellizzata e competitiva alla logica della partecipazione, della condivisione e della cooperazione di cui è portatore chi, nella propria vita privata, sperimenta la logica della rete. Che cosa significa riprogettare i luoghi di lavoro e i flussi comunicativi al loro interno sulla logica del co-working e degli hub dentro cui nascono oggi alcune delle start up più promettenti? Che cosa comporta prendere sul serio il lavoro agile, che ha fatto capolino anche nella nostra legislazione, assumendolo come modalità operativa di sistema e non solo come concessione da elargire con il contagocce?

Per certi versi le imprese si trovano di fronte alla stessa sfida dei partiti. Ai giovani stanno a cuore questioni come la tutela dell’ambiente e dei diritti umani o l’impegno per una società più giusta, ma esprimono questa attenzione quasi esclusivamente attraverso la rete e comunque non con gli strumenti e i canali tradizionali della partecipazione politica come partiti e associazioni: queste realtà, se non riusciranno a cambiare, diventeranno rapidamente obsolete. Almeno in linea teorica, le imprese dovrebbero avere un incentivo in più ad accogliere la sfida del cambiamento, visto che in una società multiculturale, in cui è vincente la logica della personalizzazione di beni e servizi e dell’attenzione al cliente e in cui anche la produzione si organizza a rete su modelli post-fordisti, un’azienda che sappia gestire e valorizzare la diversità interna è certamente più attrezzata a competere con prospettive di successo rispetto a un’azienda tradizionalmente monoculturale e standardizzata.

La demografia seguirà comunque il suo corso e prima o poi i millennials si faranno strada anche a livello professionale, realizzando il cambiamento di cui sono portatori. Quello che come società dobbiamo decidere è se subire questo processo o farne l’occasione per ridiscutere l’assetto complessivo del mondo del lavoro, spianando finalmente la strada al superamento dei molti divari che ancora lo percorrono, a partire da quello di genere, e valorizzando invece le differenze al suo interno. La scelta è se vogliamo procedere a colpi di strenue resistenze e successive rottamazioni (con i costi umani di entrambe le fasi), o attraverso la costruzione di un clima di dialogo e fiducia tra generi e generazioni che “tenga dentro” tutta la persona e tutte le persone, riscoprendo la valenza umanizzante del lavoro come esperienza di collaborazione e cooperazione.
  • HUMAN COOPERATION. Le riflessioni di questo editoriale sono nate sullo sfondo dell’incontro «Human Cooperation nella vita dell’azienda. Prospettive convergenti tra generazioni, imprese e Terzo settore», tenutosi il 25 gennaio scorso e promosso da Aggiornamenti Sociali con Valore D, la prima associazione di grandi imprese creata in Italia per sostenere la leadership femminile in azienda. Partendo dalle ricerche universitarie in ambito europeo e dalle best practice aziendali in Italia e Germania, l’evento ha evidenziato come il dialogo e la cooperazione tra generi e generazioni apra un processo virtuoso per l’azienda e l’ecosistema, coinvolgendo anche le importanti risorse del terzo settore. Una proposta, quella della Human Cooperation, che si inserisce nel progetto portato avanti da Aggiornamenti Sociali e Heritage House Reputation Architects, società di consulenza nella responsabilità sociale d’impresa, di «ArchitETICA. Laboratorio di etica integrale», per costruire percorsi di etica per il management, ma con possibili interlocutori anche nel mondo del Terzo settore, istituzioni e amministratori pubblici.

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