Il Social Compact: una risposta di senso alla crisi. (Leggi di più su: http://www.acli.it/i-temi/economia/10558-il-social-compact-una-risposta-di-senso-alla-crisi#ixzz40KQ1WRdJ)

Scritto da Giuseppe Marchese e Federica Volpi


Fiscal Compact e austerità

Già ad un primo sguardo, l’espressione Social Compact appare una sorta di provocazione in un orizzonte dominato, a livello nazionale ed europeo, dai rigidi vincoli e dalle strettoie del Fiscal Compact.

Quest’ultimo è, in realtà, il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione europea, firmato da 25 Paesi (17 facenti parte dell’eurozona, più altri 7 esterni) il 2 marzo 2012. Formalmente si tratta di un accordo europeo che prevede una serie di norme comuni e restrizioni di natura economica che hanno come obiettivo il contenimento del debito pubblico nazionale di ciascun Paese. Di fatto è divenuto sinonimo dell’austerità e lo strumento legale con cui si è definita una situazione in cui il sociale è stato subordinato all’economico.

L’iniziativa di varare il Fiscal Compact fu motivata dalla crisi, che aveva messo in difficoltà le economie di molti Paesi, costretti a indebitarsi per far fronte alle proprie spese pur con ridotte entrate fiscali e offrendo, di conseguenza, interessi sempre più alti per avere il denaro in prestito, tanto da far dubitare sulla loro capacità di ripagare i debiti, con un effetto domino sugli altri Paesi.

Com’è noto, l’accordo prevede una serie di cose, tra cui le più rilevanti riguardano l’inserimento del pareggio di bilancio in «disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale» (che in Italia hanno condotto alla modifica dell’art. 81 della Costituzione), il vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e Pil e l’obbligo di ridurre tale rapporto nei prossimi venti anni per i Paesi con un valore superiore al 60%.

Così com’è il Fiscal Compact ha avuto immediati effetti, spesso contrari alle ragioni che ufficialmente ne avevano determinato l’adozione. Ad esempio, è stato rilevato da più parti che il vincolo del 3% non consente allo Stato di indebitarsi per tagliare le tasse e fare investimenti per la crescita. E anche il vincolo della riduzione lungo venti anni consecutivi del rapporto fra debito pubblico e Pil costringe gli Stati, come ad esempio l’Italia, a fare ogni anno dolorosi tagli alla spesa pubblica, che per noi si traducono in almeno 45 miliardi di euro all’anno (sempre che ci sia il sostegno della crescita) con effetti devastanti sulle condizioni di vita dei semplici cittadini.

E torniamo al punto di partenza: di fatto il Fiscal Compact è una misura di indirizzo e di intervento tutt’altro che marginale e indolore per il corpo sociale; al contrario stabilisce una subordinazione delle esigenze dei cittadini ai dettami dell’economia, facendo pagare loro una crisi che non hanno prodotto e assoggettando le politiche economiche dei prossimi anni.

Del resto l’accordo è controverso anche per come è stato presentato all’opinione pubblica dai media e dai politici: una richiesta dell’Europa che non poteva essere disattesa, con ben poco dibattito e confronto democratico intorno al contenuto. Insomma, il Fiscal Compact è stato presentato in modo asettico come una necessità imposta dalle “leggi” dell’economia e per consolidare il nostro profilo in Europa.

Oggi in molti lo criticano e perfino diversi politici italiani, tra cui, curiosamente, parecchi dei quali all’epoca lo votarono in Parlamento, lo definiscono un grave errore. Ben prima numerosi economisti, tra cui alcuni Premi Nobel, avevano espresso il proprio dissenso circa l’introduzione di simili strumenti. Studiosi di caratura internazionale rivolsero addirittura un appello al Presidente Obama affinché si guardasse bene dal seguire una politica improntata agli stessi dettami in quanto «improvvida» per la stessa economia sia in fase di crisi e di recessione, sia in fase di espansione. L’economista e Premio Nobel Paul Krugman ha più volte dichiarato il proprio timore che l’inserimento in costituzione del vincolo di pareggio di bilancio possa condurre al dissolvimento dello Stato sociale.


Il Social Compact e la proposta Etuc

In effetti, le conseguenze delle scelte europee non hanno tardato a manifestarsi: i principali indicatori delle condizioni sociali di vita sono progressivamente peggiorati nell’Europa a 28 fino a far registrare nel 2014 il 24,4% di persone a rischio povertà o esclusione, il 9% in forte deprivazione materiale, il 9,5% di lavoratori poveri e l’11,6% di disoccupati nella sola Area euro. Intanto, il debito pubblico in Europa resta all’86,8% e Pil è fermo all’1,1%.

Discutere, dunque, di un Social Compact diventa non più soltanto una provocazione ma una battaglia culturale e di principio, che ristabilisce i valori in campo e l’ordine delle priorità.

In particolare si chiama in questo modo la proposta dell’Etuc, la Confederazione europea dei sindacati, che ha lanciato un Patto sociale per l’Europa all’indomani dell’adozione del Fiscal Compact, intravvedendo la minaccia al Modello sociale europeo e proponendo una strada diversa di uscita dalla crisi. Secondo la Confederazione, nel Patto dovevano essere inclusi i seguenti elementi:
  • contrattazione collettiva e dialogo sociale, nel senso di rispettare l’autonomia e il ruolo delle parti sociali, coinvolgendole in modo effettivo ed efficace sin dalla fase di diagnosi nel governo dell’economia europea e nei piani nazionali di riforma;
  • governance economica per la crescita sostenibile e l’occupazione, con la previsione di misure anticrisi fondate su politiche industriali e di investimento adeguate alle sfide economiche e ambientali, puntando sull’aumento dell’occupazione (specie giovanile) e migliorandone la qualità, regolamentando la finanza, rintracciando risorse aggiuntive da fonti alternative (ivi compresa la Tassa sulle transazioni finanziarie – Ttf) e ponendo fine alla liberalizzazione dei servizi pubblici;
  • giustizia economica e sociale, tramite una tassazione redistributiva e graduata sui redditi e sulla ricchezza, il contrasto ai paradisi fiscali e alla speculazione, azioni per la parità di retribuzione e di diritti a parità di lavoro, il sostegno ai salari minimi, l’armonizzazione della base imponibile e delle aliquote minime d’imposizione fiscale per le imprese.
Al di là delle singole proposte del documento, peraltro perfezionate e dettagliate nel tempo, la proposta Etuc conta anche per altri e importanti aspetti: innanzitutto essa ricorda alla più ampia platea europea che l’Unione è fondata sull’obiettivo del progresso insieme economico e sociale. Solo politiche volte a considerare congiuntamente le due sfere potranno consentire la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile. Tale sottolineatura è tutt’altro che banale, perché attraverso essa Etuc, che è espressione dei cittadini e dei lavoratori europei, ha inteso ribadire che la dimensione sociale ha pari dignità e deve godere della medesima attenzione riservata a quella economica. Anzi, l’economia deve mirare al suo rafforzamento, altrimenti si è fuori dal progetto di integrazione europea e l’appoggio della società civile organizzata potrebbe venir meno. Sulla base di queste premesse nella proposta Etuc si deplorano le misure di governance economica adottate, soprattutto le politiche al ribasso che narrano della necessità di competitività sul costo del lavoro e di austerità, dall’impatto controproducente per l’economia europea.

Etuc ha invitato fin dal principio le istituzioni europee e i singoli governi ad aprire un ampio dibattito intorno al nuovo Patto sociale, coinvolgendo più da presso il Parlamento europeo per garantire il processo democratico. Ma ben poco l’invito è stato accolto e ben poco se ne è discusso; ancor meno la questione è transitata nei media, benché la Confederazione non si sia scoraggiata e proceda nella definizione delle proposte.

Se i diritti sociali fondamentali hanno la priorità sulle libertà economiche e la dimensione sociale è un pilastro della costruzione europea, allora occorre iniziare a pensare in modo differente e occuparsi delle politiche economiche e commerciali dell’Unione per orientare le scelte verso una globalizzazione giusta e uno sviluppo che ponga al centro la persona umana. Ovvero considerandole non disgiunte dalla sfera sociale ma parte integrante di una medesima questione.


Post scriptum

Abbiamo voluto condurre questa riflessione nel recente webinar organizzato all’interno del percorso di approfondimento sui temi della disuguaglianza legato alla Campagna “Nessuno Escluso”, raccogliendo ampio consenso. In tale tragitto siamo stati affiancati ed aiutati, tra gli altri, da Monica Di Sisto, giornalista e docente di economia, vicepresidente di FairWatch e portavoce della Campagna Stop Ttip, che ha svolto un’interessante relazione, il cui contenuto è rintracciabile nelle slide allegate al presente articolo (la traduzione dall’inglese delle slide, come pure degli eventuali errori, sono nostri e non dell’autrice).

Nei prossimi webinar, come già nei precedenti, continueremo ad approfondire le piste della Campagna e gli spunti emersi e che emergeranno dagli interventi dei relatori.

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