Il sole estivo di mezzogiorno batte sul campo profughi Abu Shok di Al-Fashir, nel Darfur. La scena è quieta. Poche persone sono in giro a quest'ora del giorno; solo qualche bambino con vecchi vestiti gironzola e fa qualche gioco. Le madri non si vedono: probabilmente sono in campagna a raccogliere la legna per il fuoco.
Talvolta, alla fine della giornata, qualcuna di esse non ritorna. I suoi bambini di sette o otto anni la aspettano, ma invano: non tornerà. Qualche giorno più tardi, forse, un'altra donna del campo troverà il corpo di lei da qualche parte nella macchia, violentata e uccisa. Ma è molto più probabile che nessuno mai la rintraccerà.
Jihad Madany, direttore tecnico dei Centri per la Famiglia SOS (centri di sostegno psico-sociale) di SOS Villaggi dei Bambini, nel Darfur, spiega come le donne abbiano vita difficile nell'area del campo profughi Abu Shok, dove si trovano i centri. «C'è molto da fare», dice. «Anche quelle che sono sposate devono prendersi cura di tutta la famiglia. Gli uomini di solito se ne stanno a casa aspettando che le loro mogli si procurino il cibo per la famiglia».
Molte di loro del campo profughi sono madri sole: vedove, divorziate o abbandonate. Rivcevono aiuti alimentari da varie ONG, che però spesso non soddisfano i bisogni di una famiglia con setto o otto bambini.
Questo è il motivo per cui le donne devono attivarsi per provvedere ai bisogni delle loro famiglie. Molte di loro lasciano i parenti al sicuro nel campo profughi e lavorano in cantieri, oppure vanno a raccogliere legna per il fuoco che poi vendono ai loro vicini. Fuori dal campo sono a rischio di attacchi; Mariam, no. Suo marito è morto nella guerra del Darfur lasciandola con sette bambini. Grazie ai Centri per la Famiglia SOS, Mariam ha un lavoro decente che le permette di non dover uscire verso aree pericolose. Fa le pulizie nei centri.
«Devo lavorare: è duro vivere qui. Riceviamo 6 libbre di zucchero, un quarto di sacco di farina, mezza libbra di olio e qualche lenticchia» dice. «Tutto ciò è per tutta la famiglia ed è tutto quello con cui dobbiamo vivere, a meno che io non lavori e cerchi di comperare qualcosa in più».
Il terzo Centro per la Famiglia SOS, aperto da poco, comprende un laboratorio artigianale. Qui molte donne imparano a fare cesti, vassoi ed altri manufatti che possono vendere nel campo. Alcune donne lavorano nella sezione di accoglienza diurna del nuovo centro come babysitter, mentre altre lavorano come cuoche per i bambini.
In tutti e tre i centri le donne partecipano a incontri di sensibilizzazione su igiene, alimentazione sana per le loro famiglie e ricevono supporto psicologico. All'inizio, era difficile convincerle ad andare in terapia: era diffuso il pregiudizio che se stai ricevendo un aiuto psichiatrico, sei matto. «Qualcuna lo considera ancora una vergogna», dice Jihad. «Non avrebbero portato i loro bambini perché non accettavano che potessero avere problemi psicologici».
Ma le cose stanno cambiando: molti uomini, donne e bambini ora ricevono terapia nei tre centri di sostegno psico-sociale. I centri hanno anche aiutato varie donne a trovare lavoro, o altre attività che le mettono al riparo dal dover avventurarsi fuori dal campo in zone non sicure.