Terzo settore, impresa sociale, ma anche società benefit, banche di credito cooperativo e, ancora più in là, Pubblica Amministrazione e mercato del lavoro. Il programma del Governo procede, anche se a velocità e con esiti diversi; e il fatto che si tratti di “riforme” emerge in modo chiaro guardando anche alle reazioni caratterizzate da spigolosità e distinguo espresse dagli “indiretti interessati”, ovvero dalle organizzazioni – e loro rappresentanze – chiamate ad avviare cambiamenti più o meno radicali – chiusure, accorpamenti, nuovi modelli di governance, ecc. – per operare nel nuovo assetto. Per le reazioni dei diretti interessati, cioè di noi cittadini, l’appuntamento è invece rinviato alle varie scadenze elettorali e referendarie. (Scopri di più su:
http://irisnetwork.it/2016/02/matrice-riforma-terzo-settore-bcc/)
Ma al di là dei singoli dispositivi e del fatto che si tratta di organizzazioni, mercati e contesti piuttosto diversi (dal credito al welfare, dal locale al globale, dal nonprofit al for profit) è possibile individuare lo schema di fondo che ispira questi provvedimenti, andando oltre i semplici richiami, utili per la retorica politica, al “cambiamento”?
E’ complicato rispondere, ma procedendo per via induttiva e a partire dai casi di riforma più legati all’economia sociale, si può in effetti ricostruire una matrice di policy piuttosto chiara che prende forma lungo tre macro dimensioni.
La prima riguarda il ruolo dei network. Dopo le riforme della “politica”, pare piuttosto chiaro l’intento di rifondare il sistema dei corpi intermedi, assegnando loro funzioni più marcatamente di government del proprio sistema di riferimento, agendo a tal fine su elementi di responsabilità di natura economica e imprenditoriale, piuttosto che sull’esercizio della tradizionale funzione di governance attraverso la rappresentanza presso “tavoli” che, almeno a livello nazionale, sembrano sempre meno orientati a scopi di programmazione e, in senso, lato di sviluppo, e più a gestione di singole questioni o temi (dalle crisi a progettualità specifiche).
La seconda dimensione, forse la più controversa, riguarda il ruolo del modello cooperativo nella gestione di processi di business scaling. Le scelte, in questo caso, vanno a rafforzare l’insieme delle soluzioni alternative alla governance cooperativa in un’ottica che, a regime, si potrà valutare se essere di complementarietà oppure di sostituzione. In altri termini si riprone, al fondo, una rappresentazione del cooperare funzionale a gestire soprattutto iniziative legate a una dimensione locale e a bassa intensità di capitale. Oltre un certo “valore soglia” si preferisce adottare modelli di natura capitalistica, eventualmente arricchiti da una dimensione più esplicitamente sociale dell’impianto, oltre a quanto realizzato attraverso le tradizionali politiche e pratiche di responsabilità sociale. Sarà questo il discrimine rispetto a cui valutare se persiste il modello dualistico di Stato e mercato oppure se sta prendendo forma un spazio di imprenditoria sociale caratterizzato dalla presenza di nuovi soggetti, oltre a quelli caratterizzati da mission nonprofit “originaria”.
Terza e ultima dimensione intorno a cui si costruisce la matrice riformatice del governo consiste in un “doppio binario” lungo il quale si ristrutturano i mercati pubblici, in particolare dove si producono e scambiano beni di interesse collettivo. In questo caso pare proprio che l’intento – indirettamente e parzialmente confermato anche dalle recenti
linee guida dell’Anac sugli affidamenti al terzo settore – consista, sul fronte del metodo, nell’apertura a pratiche generalizzate di coprogettazione e, sul fronte dell’execution, sull’allargamento dei soggetti potenzialmente coinvolgibili in queste pratiche (e naturalmente nella concreta gestione delle attività), eliminando (o depotenziando), anche grazie a strumenti di misurazione e rendicontazione d’impatto, disposizione che riservano spazi di mercato a specifiche forme organizzative e giuridiche (come ad esempio le cooperative sociali di inserimento lavorativo).
Questa analisi prescinde naturalmente da giudizi di valore. Giudizi che, per quanto comprensibili e legittimi, alimentano, soprattutto in questa fase di transizione, rappresentazioni che esasperano alcuni aspetti e ne offuscano altri, generando così visioni parziali che rendono difficoltoso definire le strategie di azione volte a migliorare le riforme in atto.