La vera sicurezza è un bene relazionale, fondato sul rafforzamento dei legami comunitari. Coesione sociale e cultura della legalità danno più sicurezza della videosorveglianza. (Scopri di più su: http://www.labsus.org/2016/02/la-vera-sicurezza-e-un-bene-relazionale-fondato-sul-rafforzamento-dei-legami-comunitari/)

Filippo Pizzolato

Alla cultura dei beni comuni e della sussidiarietà pertiene un orizzonte profondamente diverso, stando nel quale la sicurezza si deve costruire promovendo la rete di relazioni che rinsalda e anima il tessuto sociale.

Prendersi cura dei “beni comuni” o rafforzare la vigilanza (umana e tecnologica) su beni privati? Con il rischio di semplificare, provo così a sintetizzare un dubbio a proposito dell’estensione del principio di sussidiarietà ai compiti, tradizionalmente autoritativi e statali, di mantenimento della sicurezza interna. Funzione originaria dello Stato, quasi la sua ragione sociale, è proprio quella di garantire la sicurezza interna e la difesa dall’esterno. Come spiega il filosofo S. Natoli, lo Stato nasce dalla “perdita dell’oggettività del bene”, che rende urgente uno “strumento per limitare il male” e “l’unico bene che [questo] può salvaguardare è che non dilaghi il male, cioè che non si realizzi un potere di distruzione tra gli uomini” (Politica e virtù, in S. Natoli-L.F. Pizzolato, La politica e la virtù, Lavoro, Roma 1999, pp. 12-13). Il lessico dei beni comuni non è “di famiglia” per lo Stato moderno. Le formazioni sociali sono state da questo ricacciate entro una sfera privata, così come privato è lo spazio rimesso alla libertà e alla partecipazione. Libertà e proprietà, a partire da Locke, vengono a costituire un binomio quasi inscindibile. E il non-proprietario è riguardato con sospetto, come fosse un cittadino inaffidabile. La povertà rappresenta – ieri come oggi – una minaccia per l’ordine pubblico. Per Tocqueville, “pericoloso è (…) soltanto il soggetto che non avendo nulla – né i diritti, né proprietà (…) -, nulla ha da perdere nel costituirsi come soggetto di rapina. (…) Buon cittadino può diventarlo soltanto chi abbia una partecipazione nel patto di cittadinanza. Ovvero chi, libero come può esserlo soltanto chi goda di proprietà e di diritti, agisca concretamente la propria libertà”[1]. Oggi l’equazione povertà-minaccia è riproposta nei confronti dei migranti e dei mendicanti.


Politiche securitarie

In una società percepita come intrinsecamente conflittuale e minacciosa, lo Stato e il mercato costituiscono tecniche complementari di “immunizzazione” dell’individuo dal rapporto con l’altro da sé. Nulla di strano, pertanto, se in ausilio dello Stato nelle funzioni securitarie accorra il mercato che a individui (consumatori) impauriti promette strumenti che consentano loro di organizzare – a fianco dello Stato stesso – la propria auto-difesa e di alzare le “siepi”, ormai spoglie, che il sovrano ha piantato per separare i sudditi e difendere le loro proprietà. Le politiche securitarie costituiscono il terreno più naturale di questa alleanza tra Stato e mercato. Soprattutto in alcuni contesti nazionali si diffondono soluzioni private alla domanda di sicurezza. Nelle città, in preda alla mixofobia, e cioè alla paura della mescolanza con i diversi, come annota Bauman, si tengono separate le “gated communities”, sorvegliate da guardie private. Nel nostro ordinamento, piantato nella terra buona della nostra Costituzione, il ruolo di soggetti privati è consentito solo per funzioni di sicurezza complementare o integrativa, senza sconfinamenti nell’ambito di interventi coercitivi di ordine pubblico.


Percezione e domanda di sicurezza

Non che, anche da noi, manchino pulsioni, non sempre spontanee o fondate su pericoli reali, all’autodifesa da parte degli individui. Nel dibattito che ha portato alla “liberalizzazione” della legittima difesa domiciliare (con la riforma dell’art. 52 c.p.) si è scomodato impropriamente il principio di sussidiarietà. Il Sindaco di Borgosesia, nonché europarlamentare della Lega, ha esibito in televisione una pistola per presentare la sua iniziativa di istituire un fondo per sostenere l’acquisto di un’arma. E cittadini italiani che hanno sparato in casa propria, talora uccidendo, per proteggere la proprietà e/o l’incolumità minacciate, assurgono al rango di eroi popolari e, quand’anche condannati, se ne reclama rumorosamente (talora con successo) la grazia.

Se questa è la tendenza, è evidente il rischio di separare la domanda di sicurezza dalla cultura della legalità. In nome dell’emergenza, reale o presunta, si auspicano misure restrittive, deroghe, che incontrano un certo consenso tra i cittadini, soprattutto quando siano selettive, rivolte cioè a colpire in modo diseguale i non cittadini o i non abbienti. In questo contesto, la partecipazione dei cittadini può prendere strade ambigue. Attività di vigilanza passiva del territorio e di segnalazione, in sé innocue e finanche utili, vengono presentate con il nome sinistramente evocativo di “ronde”. E i cittadini attivi vengono assoldati in compiti di presidio di beni privati, quasi fossero un surrogato povero della videosorveglianza o della vigilanza professionale privata. Si manifesta così una nuova variante della dimensione “parassitaria” della visione liberale, quella per cui una società di individui liberi, presunti indipendenti e razionali, vive alle spalle di forme previe di socializzazione e di legame sociale, che pure contribuiscono a indebolire[2]. Non di rado, nei Comuni, queste iniziative, anziché occasione di ricomposizione del tessuto sociale, diventano motivo di ulteriore lacerazione, causata da una pericolosa predeterminazione ideologica. E per scongiurare derive, si deve giungere a una regolamentazione prudente e così analitica da far evaporare ogni carattere di spontanea iniziativa (G. Arena in http://www.labsus.org/2009/09/la-sicurezza-e-un-bene-comune-di-cui-i-cittadini-possono-prendersi-cura/).


Soluzioni private

Misure così congegnate di attivazione (privata più che) civica rischiano paradossalmente di generare altra insicurezza, poiché – così come avviene nell’etologia animale – anche negli uomini il senso di paura può scatenare l’aggressività o alimentare un rancore pronto a esplodere. Negli USA lo stesso Presidente Obama si è fatto portavoce della preoccupazione crescente per i danni causati da una scriteriata diffusione delle armi tra i cittadini. E strategie comunicative, proprie di certo linguaggio politico, volte ad additare il nemico responsabile dell’insicurezza, inducono a loro volta un’intolleranza che può sfociare in reati. Un caso piuttosto recente, la strage di Utoya in Norvegia, conferma quanto la diffusione anche politica di posizioni xenofobe possa far deflagrare comportamenti violenti e psicosi. E, in ultima analisi, appare miope e insieme illusoria una visione che pretenda o prometta di ricavare soluzioni private o anche locali, ritagliando rifugi di una pretesa sicurezza assoluta, in presenza di un contesto internazionale segnato da un forte disordine politico ed economico.


Sicurezza: bene pubblico, esclusivo, rivale

Per usare categorie di derivazione economica, si può forse vedere il rischio che, fattualmente, la sicurezza, da esempio classico di “bene pubblico”, degradi a “esclusivo”, quando non addirittura a bene “rivale”, che alcuni consumano al prezzo dell’insicurezza altrui. Inserendosi in questa cornice, il dibattito sui beni comuni e ancor più il richiamo al principio di sussidiarietà, sono esposti a strumentalizzazioni. Alla cultura dei beni comuni e della sussidiarietà pertiene un orizzonte profondamente diverso, stando nel quale la sicurezza si deve costruire promovendo la rete di relazioni che rinsalda e anima il tessuto sociale. Cultura dei beni comuni e della sussidiarietà esigono dunque di alzare il livello della sfida, mettendo nel mirino un’idea diffusa di libertà come privatezza e separazione, per promuoverne una che si svolga nella cooperazione, da cui è ispirata una Costituzione fondata sul lavoro e aperta a una dimensione internazionale di pace e giustizia. La libertà che il progetto politico della modernità ha messo al centro è infatti intrinsecamente ansiogena, poiché ancorata a una condizione – l’indipendenza – antropologicamente ingannevole; e questa è riletta oggi, in chiave mercatista, in correlazione ambigua con il merito: “liberi di competere per il proprio personale successo, poiché non esistono più limiti fissi e prestabiliti all’esercizio del desiderio, i soggetti del processo democratico trasferiscono sul piano della competizione (sul terreno dell’economia; su quello del desiderio del riconoscimento sociale; su quello della rinomanza e della fama) quella possibilità di differenziarsi gli uni dagli altri che gli è stata tolta dal punto di vista politico”[3]. Di una libertà intesa come indipendenza gli individui devono mostrarsi all’altezza; e la fragilità diventa inadeguatezza, fallimento e colpa. Da qui una insicurezza esistenziale che tracima nella percezione di rapporti sociali minacciosi.


Il contributo dei cittadini attivi

Come scrive Gregorio Arena nell’articolo già citato, “ordine pubblico e sicurezza non sono la stessa cosa”; perciò “il mantenimento dell’ordine pubblico è compito delle istituzioni, mentre la sicurezza è un bene comune di cui tutti i cittadini, individualmente e collettivamente, dovrebbero sentirsi responsabili”. L’apporto dei cittadini attivi alla sicurezza dovrebbe allora concentrarsi sulla cura della relazione, attraverso la rivitalizzazione degli spazi pubblici e del legame sociale, affinché il tessuto sociale ne guadagni in inclusività e in coesione (ciò che aiuta a prevenire il disagio) e perché si sviluppi una cultura della legalità che è premessa dell’ordine pubblico e sostegno per i tutori istituzionali della sicurezza. A questa funzione la videosorveglianza non può arrivare…
  • Note al testo:
[1] S. Chignola, Il fragile cristallo. Per la storia del concetto di società, Editoriale Scientifica, Napoli 2004, p. 447.
[2] S. Zizek, Politica della vergogna, Nottetempo, Roma 2009, pp. 40-41.
[3] S. Chignola, Il fragile cristallo, cit., p. 408; v. anche S. Zizek, Il coraggio di cancellare il debito, in S. Zizek-S. Horvat, Cosa vuole l’Europa?, tr. it. Ombre corte, Verona 2014, p. 117.

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