“Professione fundraiser”, Intervista a Luciano Zanin, presidente ASSIF – Associazione Italiana Fundraiser. (Scopri di più su: h
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Si tenuto a Roma venerdì 29 gennaio, l’ASSIF Day 2016, giornata di approfondimento, aggiornamento e confronto tra professionisti del fundraising promossa da Assif, l’associazione di categoria dei fundraiser e di coloro che si occupano di fundraising. “Professione fundraiser” è stato il tema principale della giornata, ulteriormente sviluppato nelle due tavole rotonde: «A che punto è il mercato del lavoro dei fundraiser?» e «Nuove proposte di contratto di lavoro alla luce del Jobs Act».
Fundraiser uguale “persona che trova soldi”: è proprio così oppure è un termine riduttivo?
Nell’immaginario comune viene tradotto così, ma in realtà il fundraiser cerca i donatori, non i soldi, perché solo attraverso di essi si possono ottenere le risorse – economiche ed umane – che sono necessarie per perseguire mission e portare avanti progetti a favore dei beneficiari. E i donatori parteciperanno nella misura in cui questo avrà un senso per loro. Per cui lo tradurrei più come qualcuno che cerca donatori ai quali dare un senso (to raise è sollevare, elevare, alzare e rialzare).
Il ruolo del fundraiser in Italia è cambiato col tempo?
Non solo è cambiato, ma si sta sviluppando, nel senso che sta acquisendo complessità che si traduce in sfaccettature diverse della professione, a seconda non solo dei settori– sanità, ricerca, cooperazione internazionale, welfare, ecc. – ma anche e soprattutto dei contesti in cui opera. Sempre più spesso il fundraiser funziona anche da motivatore, facilitatore, innovatore di organizzazioni, perché modifica le dinamiche relazionali interne ed esterne, e di processi, perché li rende necessariamente più partecipati.
Il lavoro del fundraiser si rivolge solo al terzo settore oppure ci sono altri ambiti in cui svolgerlo?
E’ un lavoro che si sta espandendo anche alle pubbliche amministrazioni(sanità, welfare, scuola, cultura) e sempre più in forma di reti miste Profit/nonprofit/P.A. Inoltre le competenze specifiche possono essere spese anche con le imprese for profit: basti pensare al tema della Responsabilità sociale di impresa, o di relazioni con i clienti – sempre più simili a quelle con i donatori – o a reti di imprese for profit che necessitano di skill in grado di tenerle insieme e di farle crescere in un clima di fiducia, e generare fiducia è indubbiamente una delle attività che un fundraiser deve saper fare.
Il mercato potenziale che dimensioni ha?
Per la professione, molto grande. Due numeri: 301.000 organizzazioni nonprofit di cui circa solo un 20% circa dichiara di fare fundraising in modo strutturato, secondo i dati ISTAT 2011: non lo faranno mai tutti, ma evidentemente lo spazio c’è, anche dal lato dei donatori: l’Italia può ancora crescere molto.
Che consigli darebbe a chi vuole intraprendere questa professione?
Di prepararsi su materie umanistiche (antropologia, filosofia, sociologia), oltre a quelle tecniche specifiche, ma soprattutto di abituarsi a mettersi in gioco e in discussione costantemente.
Ci sono delle scuole dedicate?
Il Master in fundraising di Forlì, la Scuola di Fundraising di Roma, la Fundraising School di Forlì, ASVI Social Change di Roma, Confinionline di Trento, e poi altri numerosissimi corsi di fundraising o moduli all’interno di percorsi di formazione per gli operatori del nonprofit.
Il suo operato termina nel momento in cui ha reperito la somma richiesta?
Assolutamente no. Se è vero, come io credo,che l’attenzione del fundraiser debba essere focalizzata in primis sul donatore e successivamente sulla donazione, allora non solo non termina quando l’atto donativo si manifesta, ma anzi ogni volta che questo accade la relazione si sviluppa in un contesto dinamico, come del resto tutte le relazioni. Il ciclo del dono d’altra parte, è un circolo: dare/ricevere/ricambiare senza soluzione di continuità, perché continua a creare relazione che è poi il motivo per il quale le persone, generalmente, donano.
Il fundraiser lavora da solo o in team?
E’ un lavoro che non si può svolgere da soli ma è un lavoro di team. Ritengo che sia una “iper-professione”, che necessita di saperi ed esperienze multiple e trasversali, quindi con diversi punti di contatto con altre professioni, è però l’unica che si occupi di stimolare, sollecitare, diffondere e curare l’esercizio del dono.
Ci sono differenze tra l’esercitare questa professione in Italia o all’estero?
Il fundraiser che opera in un contesto socio-culturale-economico-politico dove il dono ha il riconoscimento di ruolo sociale, come in USA, Canada, Inghilterra, ma anche Irlanda, Thailandia, Germania, fa una professione a sua volta riconosciuta, perché si occupa di qualcosa cui al comunità attribuisce un valore. Il dono, in Italia, in questo momento storico, non ha un ruolo riconosciuto socialmente e quindi coloro che si occupano di questo, automaticamente, non sono riconosciuti. Parafrasando le professioni, per una persona che vive senza energia elettrica, che senso può avere un elettricista?
Che consigli darebbe a una realtà che vuole utilizzare i servizi di un fundraiser?
Di lasciarlo lavorare dando fiducia. Il fundraiser, o meglio il fundraising, è un investimento, che indubbiamente chiede alle organizzazioni dell’impegno e ha bisogno di tempo per dare risultati, ma può essere decisivo per le stesse e soprattutto per le persone o le comunità che queste servono.
(a cura di Paola Scarsi)