Esteri. Dall’11 settembre 2001, la spesa militare mondiale è aumentata del 50%. Un istituto di ricerca australiano ha misurato la “Pace Positiva” attraverso otto indicatori inediti. Il concetto individua attitudini, istituzioni e strutture che, quando vengono rafforzate, portano a una maggiore pace sociale. Il ruolo centrale di un modello economico alternativo. (Scopri di più su: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=5419)

di Francesco Vignarca

La Pace non è solo “assenza di guerra”. Questo è il sogno di chi da tempo si ispira a ideali pacifisti e nonviolenti, e che da sempre l’Institute for Economics and Peace di Sidney (economicsandpeace.org) sta raccogliendo. Dal 2013, infatti, ha proposto otto “Pilastri della pace” (Pillars of Peace). Un governo funzionante e bassi livelli di corruzione sul versante istituzionale. Buone relazioni con i vicini, accettazione dei diritti degli altri e alto livello di capitale umano per quanto riguarda la condizione sociale. Equa distribuzione delle risorse e un sano contesto per gli affari economici. Il tutto condito da un flusso libero di informazioni.

È un’idea che rievoca il concetto di “Pace positiva” di Johan Galtung e che punta ad individuare al meglio i percorsi per costruirla. “Gli otto pilastri sono sia interdipendenti sia mutualmente rafforzanti -sottolinea Camilla Schippa, l’italiana che dirige l’istituto australiano- e ciò significa che la forza relativa di ciascuno di essi ha il potenziale per influenzare positivamente la Pace”.

La Pace Positiva, quando funziona, agisce come un sistema in cui la somma delle parti ha impatto positivo maggiore dei singoli elementi. “Dobbiamo quindi intervenire con un’azione complessiva”, conclude Schippa.

Il merito di un approccio di questo tipo risiede anche nella capacità di poter misurare la situazione e quindi provare a individuare le azioni più adatte. I dati raccolti hanno portato alla pubblicazione, ad ottobre 2015 e sempre da parte dell’IEP, del “Positive Peace Report” con l’obiettivo di utilizzare i pilastri già individuati per elaborare un “Positive Peace Index” (PPI). Operazione possibile solo considerando una definizione diversa di Pace.

“Per Pace Positiva noi intendiamo individuare le attitudini, le istituzioni, le strutture che, quando vengono rafforzate, portano a una maggiore pace sociale -afferma Steve Killelea fondatore dell’IEP- e con i Pilastri abbiamo ora occasione di misurarla”.

Ogni Pilastro è misurato attraverso tre indicatori. La scelta è avvenuta all’interno di 4.700 serie di dati (armonizzate per ciascun Paese) capaci di misurare un’ampia varietà di fattori politici, economici, sociali, attitudinali. Solo gli indicatori applicabili ad almeno 95 Paesi sono stati presi in considerazione. Tramite una serie di valutazioni e di pesi (con ciascuna voce impattante al massimo per il 5,1% del totale) si arriva a calcolare il PPI di ogni Paese sommando ogni singola cifra risultante. Ciò significa che più basso è il totale, migliore è la situazione di Pace positiva in quel luogo. E grazie ad una serie storica accessibile (dieci anni), si possono descrivere le dinamiche evolutive. Con qualche sorpresa. Stando infatti al livello di “pace negativa” -quello direttamente legato alla violenza, misurato grazie al Global Peace Index-, il mondo oggi risulterebbe meno pacifico rispetto al 2008. Considerando il PPI, invece, si registra un sensibile miglioramento globale. Tra il 2005 e il 2015, l’indice medio è cresciuto dell’1,7% e 118 Paesi su 162 hanno migliorato la loro performance, grazie soprattutto ai Paesi del Sud del mondo. Ed è questo il vero interesse della ricerca: individuare tendenze geografiche, e soprattutto nelle singole aree (i grafici di queste pagine forniscono immediatamente in quadro in tal senso), per poi intervenire.

Il legame della Pace positiva con istituzioni democratiche più robuste e maggiore ricchezza economica è confermato, ma è altrettanto interessante notare come il 91% dei movimenti violenti abbia luogo in Stati con bassi livelli di PPI. A causa soprattutto dell’aumento dei livelli di corruzione e dei limiti alla libertà di stampa, gli Stati Uniti e oltre il 50% dei Paesi europei hanno vissuto negli ultimi dieci anni un deterioramento del PPI (e questo nonostante il livello medio per il continente europeo abbia avuto un leggerissimo miglioramento). Insieme ad Ungheria, Grecia ed Islanda sono proprio gli USA ad aver subito il calo maggiore (oltre il 5%).

In testa alla classifica, come in altri ambiti, i Paesi dell’Europa del Nord (Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, Irlanda) mentre l’Italia si colloca al 28esimo posto, con punti deboli nel funzionamento delle strutture di governo (debole) e nei livelli di corruzione (alti). In generale, i casi delle nazioni con maggiore PPI dimostrano come la Pace positiva richieda sistemi solidi e resilienti per svilupparsi.

Il contrario di quel che il citato Global Peace Index ha fotografato per il 2014: quell’anno, infatti, è stato stimato che l’impatto economico della violenza (e delle armi) sull’economia globale ha raggiunto quota 14.300 miliardi di dollari, corrispondente al 13,4% del Pil mondiale. Una situazione da affrontare.

“Certamente la prospettiva economica è centrale -sottolinea Linda Bilmes, docente alla Harvard Kennedy School e autrice con il Premio Nobel Joseph Stigliz del libro ‘La guerra da 3.000 miliardi di dollari’-, specie se inizieremo a considerare il costo reale dei conflitti. Non dobbiamo infatti limitarci ai costi iniziali previsti dalle azioni militari, ma valutare anche l’impegno economico a lungo termine”. Un conteggio che Bilmes e Stiglitz hanno condotto per quanto riguarda la guerra in Iraq: il presidente George W. Bush aveva promesso di spendere fino a circa 80 miliardi di dollari, ma altre stime ufficiali del Pentagono hanno poi portato i costi diretti ad almeno 600. “Se si aggiungono ai costi operativi anche quelli di cura dei soldati, di ricostruzione delle infrastrutture, del rimedio ai danni economici, del sostegno finanziario alle realtà post-belliche, allora dobbiamo quintuplicare la somma -afferma Linda Bilmes-”.

In cosa questo tipo di analisi potrebbe favorire scelte di Pace? Secondo Bilmes, “Se valutassimo in modo più attento e preciso il costo dei conflitti credo che la politica, anche su pressione dell’opinione pubblica, sarebbe meno incline ad intraprendere nuove guerre e più propensa a cercare di risolvere i problemi in altra maniera”.

Per raggiungere l’obiettivo si stanno sviluppando studi economici che vanno oltre l’idea del keynesismo militare, e cioè che la spesa militare sarà sempre bene accetta come stimolo all’economia derivante da soldi pubblici e che, in fin dei conti, solo con una guerra si può essere sicuri di superare una fase recessiva.

“La Peace Economics, l’economia della pace, è al contrario un tentativo di illustrare come l’economia e la società possano riorganizzarsi in modo tale da vivere la pace come valore fondante -ci dice John Paul Dunne, professore di Economia alla School of Economics della University of Cape Town- mentre invece oggi l’economia è eccessivamente coinvolta nella preparazione e nell’esecuzione di conflitti”. La conferma arriva anche dai dati sulla spesa militare mondiale, aumentata del 50% nei 14 anni successivi all’11 settembre 2001.

“Davvero è così: abbiamo mancato l’occasione di disarmo alla fine della Guerra Fredda, tanto è vero l’attuale spesa militare attuale rispetto al Pil è oltre due volte maggiore dei livelli pre bellici. In particolare gli Stati Uniti spendono oggi cinque volte di più, in termini finanziari, rispetto al 1950”, conclude Dunne.

Il prodotto dei conflitti è un’economia drogata, incapace di giungere a una pace reale fondata su un modello economico differente, quanto semmai ad una sospensione delle guerre.

“È necessario un contratto sociale ed economico che includa al suo interno la pace e preveda una serie di misure che rendano improbabile l’insorgere o il riemergere di conflitti violenti -prosegue Dunne-. Come economista cerco di fare chiarezza sui fattori economici e gli interessi acquisiti che spesso intervengono a scapito della pace”. Tra le strade possibili da intraprendere (studiate da Dunne con Jurgen Brauer nel recente volume “Peace Economics”) quelle di un rafforzamento di cicli commerciali locali che stabilizzino e facciano crescere il capitale umano, legati ad un approccio in cui la Pace sia centrale nelle scelte economiche. “Tutti gli ambiti della società (civile, politica, commerciale) devono essere coinvolti”, è la convinzione di Dunne.

“Non dobbiamo lasciare questa decisione alle scelte dei politici, magari interessate o guidate dal consenso elettorale -riflette Raul Caruso, professore di Politica economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano-. Nel 2007, prima delle crisi economica e perciò con una valenza ancora maggiore, alcuni studi globali hanno dimostrato come in assenza di guerre e di altre forme di violenza il Pil mondiale sarebbe stato più alto di poco meno del 9%, ed io stesso ho valutato che a ogni aumento dell’1% della spesa militare era associata una perdita di produttività dello 0,1%. Sembra poco, ma non lo è”.

“La Pace funziona come stimolo positivo per l’economia -sottolinea Caruso- come dimostra la ripresa dopo la Seconda Guerra Mondiale del Giappone e della Germania (oltre che del nostro Paese), e anche le misure di produttività manifatturiera negli Stati Uniti (che non erano stati distrutti come gli sconfitti) cresciute di oltre il 12% tra la fine del conflitto e il 1950”.

Anche se è dimostrato che i conflitti hanno un impatto negativo sia sulla produzione economica sia sui livelli di educazione e capitale umano, è difficile debellarli. Eppure una strada alternativa verso la Pace Positiva è pronta ad essere percorsa. Perché non provarci?

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