Occorre sfatare il mito delle guerre di religione. Nessun Dio chiede di uccidere in suo nome. A muovere gli eserciti, ad attentare alla vita di uomini e donne inermi è il dio-denaro, la sete di potere che sempre riesce a corrompere gli uomini di ogni etnia, cultura e credo religioso. (Scopri di più su:
http://www.benecomune.net/articolo.php?notizia=1996)
Michele D'AvinoÈ il tempo del paradosso e del terrore. In un mondo sempre più secolarizzato e dimentico delle proprie radici valoriali, diventa sempre più facile morire “in nome di Dio”. Sono innumerevoli gli episodi di intolleranza religiosa e violenza, nei confronti di minoranze etniche e culturali in ogni area del pianeta, che vengono denunciati dalle organizzazioni umanitarie come Human Right Watch. Troppo spesso si tratta solo del tragico preludio di veri e propri conflitti armati e guerre con un numero impressionante di morti. Un fenomeno che riguarda sia i Paesi laici che quelli confessionali, sia le dittature che le nuove democrazie.
È il tempo delle guerre di religione e degli scontri tra culture. Crescono drammaticamente le vittime di attacchi terroristici perpetrati in nome della jihad, soprattutto in Medio Oriente e nell’Africa sub-sahariana. Ma le minacce dell’autoproclamato Stato Islamico hanno travalicato i confini del conflitto siriano e della costa sud del Mediterraneo e si sono spinte fin dentro il cuore dell’Europa, seminando l’orrore della morte nei luoghi dove si svolge la vita quotidiana dei comuni cittadini occidentali. Le vittime della violenza e del terrore, tuttavia, non si registrano soltanto tra gli “infedeli” caduti per mano di fondamentalisti islamici. Basti pensare alle persecuzioni nei confronti dei Rohingya, minoranza araba di fede islamica, che in Myanmar è stata decimata per mano dei buddisti di etnia Bamar, fomentati dalle teorie nazionaliste del monaco Wirathu.
Gli appelli accorati ai governanti e alle nazioni di papa Francesco e di molti altri leader delle grandi religioni monoteiste sembrano dissolversi nel vento di fronte all’avanzare degli “eserciti di Dio”. Il fondamentalismo di natura religiosa rende i suoi proseliti sordi al senso più profondo dei testi sacri e ciechi di fronte ai propri simili.
Quella attuale, a ben vedere, è solo l’ultima pagina di una storia recente che ha enfatizzato gli aspetti etnici e religiosi delle parti in contrapposizione, ricercando nella religione una legittimazione della guerra e della violazione dei diritti fondamentali della persona umana.
Dopo l’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington dell’11 settembre 2001, la semplicistica riduzione della lotta al terrorismo islamico a “guerra di religione”, operata dalla propaganda politica di entrambi i fronti in contrapposizione, ha segnato in maniera pericolosa la cultura contemporanea e l’opinione pubblica.
Emblema di tale asservimento della fede ad interessi di natura economica e politica resta senza alcun dubbio la “guerra santa” che ancora oggi si combatte in Terra Santa. Il conflitto fra Israeliani e Palestinesi, recentemente acuitosi in quella che è stata considerata la terza intifada, dimostra con chiara evidenza come, dietro le rivendicazioni di tipo etnico e religioso, si nascondano in realtà visioni geopolitiche inconciliabili e necessariamente contrapposte. Gli obiettivi politici di Netanyahu sul fronte israeliano e di Hamas su quello palestinese si escludono a vicenda e prevedono, da ambo le parti, la sconfitta dell’altro. Ciò che manca è la reale volontà di trovare una soluzione pacifica al conflitto: Israele preferisce la soluzione attuale a quella di una Palestina indipendente, mentre la Palestina ritiene che qualsiasi accordo che possa comportare la rinuncia a porzioni di territorio costituisca un tradimento del proprio popolo.
Parimenti sono ragioni di natura prevalentemente geopolitica che alimentano le rivendicazioni jihaidiste, soprattutto in quei territori dove sono stati sovvertiti i precedenti apparati governativi e i regimi militari hanno aperto la corsa alla conquista delle risorse naturali ed economiche. Come ha sottolineato un attento osservatore delle dinamiche geopolitiche del calibro di Lucio Caracciolo, il vero obiettivo del Califfo Al-Baghdadi è quello di consolidare il proprio dominio nel territorio a cavallo tra Siria ed Iraq, eliminando le minoranze ivi presenti, anche se di fede islamica, come i musulmani sciiti. La guerra che si combatte oggi in Medio Oriente, come la gran parte delle guerre che la storia annovera, può pertanto ad ogni effetto essere connotata come guerra per la conquista di un territorio.
Occorre dunque sfatare il mito delle guerre di religione. Nessun Dio chiede di uccidere in suo nome. Non il Dio dei cristiani, non quello degli ebrei, nè quello musulmani. Ma ci sono e ci sono stati cristiani, ebrei e musulmani pronti ad invocare il proprio Dio pur di soddisfare ambizioni politiche ed interessi di parte. A muovere gli eserciti, ad attentare alla vita di uomini e donne inermi è, ora come allora, il dio-denaro, la sete di potere che sempre riesce a corrompere gli uomini di ogni etnia, cultura e credo religioso.
Occorre rifuggire altresì ogni semplificazione arabo/terrorista e occidentale/infedele, paradigmi utili soltanto ad alimentare un clima di pregiudizio e contrapposizione che favorisce chi ha interesse al mantenimento della guerra e alle speculazioni di tipo economico e finanziario che essa comporta. E ciò soprattutto in un momento in cui l’Europa è chiamata a gestire la complessa sfida del massiccio ingresso di profughi e rifugiati di fede musulmana e della loro integrazione nelle comunità locali.
Di fronte al moltiplicarsi delle (finte) guerre di religione e all’amplificarsi delle conseguenze devastanti per l’intera umanità, si fa dunque più urgente la necessità di moltiplicare gli sforzi (reali) per la pace. La pace ci chiede un impegno concreto per la riaffermazione delle regole di diritto dettate dall’ordinamento internazionale.
Non si tratta di una “guerra persa” in partenza. Già altre volte, proprio per impulso della religione, lo scenario internazionale ha saputo ricomporsi proprio quando sembrava che nulla potesse più essere tentato. Nel tempo delle divisioni, la Pacem in Terris di papa Giovanni XXIII seppe unire popoli e Nazioni di cultura e fede diversa, Oriente ed Occidente, L’Europa da ambo i lati della cortina di ferro, quasi a ridestare gli animi intorpiditi da visioni unilaterali e monolitiche, a riannodare i fili dell’appartenenza ad un’unica famiglia umana.
Occorre che anche oggi le autorità politiche e l’insieme degli Stati complessivamente considerati adempiano senza riserve o condizionamenti di sorta al proprio compito di promozione della pace e di garanzia e rispetto dei suoi diritti fondamentali. È necessario, dunque, rinsaldare le fondamenta della costruzione giuridica internazionale sancite nel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite e fare tutto il possibile affinché il diritto prevalga sulla forza, affinché i solenni ideali della promozione del «progresso sociale» e di «un più elevato livello di vita all’interno di una più ampia libertà» trovino realizzazione, preservando le future generazioni dal «flagello della guerra».
La fede religiosa, di qualsiasi matrice essa sia, è portatrice di istanze non solo sul piano etico ed individuale, ma anche su quello civile e pubblico. Le religioni hanno dunque una dimensione sociale che non può essere negata, ma che, piuttosto, va oggi riaffermata e promossa.
Di fronte al tempo del terrore, delle guerre di religione e degli scontri tra culture, occorre allora riconquistare il tempo del dialogo e dell’integrazione, della costruzione di comunità plurali. La convivenza e l’interazione tra diverse culture e comunità religiose, linguaggi e costumi, sono fenomeni che richiedono una corretta applicazione del principio fondamentale della laicità dello Stato e delle istituzioni, a garanzia della piena estrinsecazione della personalità e dei diritti fondamentali di ciascuno. Non si tratta di procedere verso un relativismo che sorpassi ogni differenza. La laicità, piuttosto, è (e deve essere) luogo che favorisce l’incontro e il confronto tra soggetti diversi, per religione, cultura, ideologia e, in ultima analisi, essa presidia il pieno e positivo svolgimento della convivenza democratica. La laicità “bene intesa”, dunque, è una conquista dello Stato di diritto, che gli stessi credenti hanno il dovere di difendere e ribadire.
Infatti, abitare il mondo da credenti vuol dire impegnarsi affinché siano affermati e rispettati i diritti inalienabili della persona umana e praticato lo stile dell’accoglienza e del dialogo. Ognuno di noi è un interlocutore privilegiato di questa necessaria dinamica dialogica. A ciascuno è affidato il compito di far progredire la causa della giustizia e del rispetto della dignità umana, le ragioni della convivenza democratica e della pace tra i popoli e le nazioni. Si tratta, in buona sostanza, di recuperare la categoria – al contempo etica e civile – della cittadinanza mondiale, riconoscersi membri dell’unica famiglia umana, ritrovare una comune spinta valoriale per la costruzione di un mondo che sia riflesso dell’amore di Dio per i suoi figli.