«Il lavoro non è un dono gentilmente concesso a pochi raccomandati: è un diritto per tutti». Questa lapidaria affermazione è stata pronunciata da papa Francesco nell’udienza concessa pochi giorni fa ai gruppi del progetto Policoro, istituito dalla Cei due decenni fa per promuovere l’occupazione giovanile e che vede tra i partecipanti anche le Acli. (Leggi di più su: http://www.acli.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=10462:misurare-le-distanze-tra-le-parole-e-la-realta&Itemid=773#ixzz3wdYSQIW2)

Scritto da Giuseppe Marchese e Federica Volpi

Il lavoro – ha aggiunto il Papa – è «dignità: non perdiamo di vista l’urgenza di riaffermare questa dignità, essa è propria di tutti e di ciascuno, ogni lavoratore ha diritto di vederla tutelata, e in particolare i giovani devono poter coltivare la fiducia che i loro sforzi, il loro entusiasmo, l’investimento delle loro energie e delle loro risorse non saranno inutili».

Non è la prima volta che il Pontefice si esprime sul valore santificante del lavoro, che non deve sfruttare, né schiacciare, né umiliare né mortificare, ma rendere l’essere umano veramente libero, secondo – appunto – la «sua nobile dignità».

Al Papa in effetti non sfugge che anche se ci sono iniziative lodevoli di coinvolgimento giovanile per migliorare le opportunità di lavoro come il progetto Policoro, la realtà dei giovani oggi è fatta per lo più di disoccupazione, di scoraggiamento nella ricerca del lavoro, di rassegnazione all’interno di una società indifferente «che premia i soliti privilegiati, che sono corrotti, e impedisce a chi merita di affermarsi».

Non è la prima volta che ci troviamo a commentare con attenzione le parole del Papa sul sistema economico e sul lavoro: anche questa volta, ci pare, abbia colpito nel segno, parlando con una chiarezza e un coraggio che manca a molte formazioni politiche e sociali. Il suo richiamo alla dignità del lavoro, con specifico riferimento ai giovani ci interpella direttamente, in quanto associazione di lavoratori che incontra i giovani in molte forme.

Se le affermazioni del Papa sono, come pare, ampiamente condivisibili, allora non resta che verificare quanto il contesto socio-politico ed economico sta facendo per consentire ai giovani di accedere “dignitosamente” al mondo del lavoro, quanto il sistema pubblico e privato stiano operando in questa direzione.

Un indicatore indiretto per valutare la stato delle cose si può rintracciare analizzando i dati del 49° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, presentato dal Censis lo scorso 4 dicembre.

Scorrendo le pagine del Rapporto appare chiaro che ci troviamo nell’Italia dello zero virgola, in cui le variazioni congiunturali degli indicatori economici sono ancora minime. Una società impantanata, avviluppata su se stessa, in cui gli investimenti sono nulli e le scelte finanziarie delle famiglie optano fortemente per soluzioni difensive. Non riprende, di conseguenza, l’assunzione del rischio individuale, poiché c’è consapevolezza diffusa che osare potrebbe procurare danni non sostenibili per le proprie solitarie biografie personali.

Quali sono gli effetti sul fronte del lavoro? I dati evidenziano che l’entrata in vigore del Jobs Act non ha prodotto significativi effetti sul mercato del lavoro; si è ancora ben lontani dal recuperare la situazione pre-crisi: dal 2008 mancano più di mezzo milione di posti di lavoro e la disoccupazione è quasi il doppio.

La crescita dell’occupazione femminile e dei lavoratori anziani (55-64 anni) si spiega anche con la crescita di lavori a bassa qualifica e con la necessità di restare nel mondo del lavoro (anche per le recenti riforme previdenziali), mentre cresce la sottoccupazione, che riguarda quasi 800mila lavoratori, e il part time involontario, che interessa 2,7 milioni di occupati. Intanto la Cassa Integrazione nel 2014 ha superato la soglia del miliardo di ore concesse.

La situazione peggiore la scontano, però, proprio i giovani: per coloro che hanno tra i 15 e i 24 anni si registra un crollo dell’occupazione, proseguito nel 2015, con un recupero a fine anno di appena 9.000 unità rispetto al primo trimestre. Per i giovani tra i 20 e i 34 anni il tasso di occupazione è al di sotto del 50% (quasi -1% rispetto all’anno precedente); ma considerato quello per i giovani da 15 a 29 anni si constata che è sceso di quasi 12 punti percentuali tra il 2007 e il 2013, passando dal 64,3% al 52,8%, il secondo peggior dato tra i Paesi Ocse dopo la Grecia. Il tasso di mancata partecipazione mostra incrementi più forti per i giovani tra 15 e 34 anni (+1,7%), arrivando al 36,7% con un aumento di 14 punti percentuali in 6 anni.

Pure considerata da un altro punto di vista la faccenda non cambia: il tasso di disoccupazione giovanile è praticamente raddoppiato in sei anni, con il valore massimo raggiunto nel 2014 del 42,7%, rispetto al quale il recupero di 1,4 punti all’inizio di quest’anno appare davvero un’inezia, quasi un dato fisiologico, che ben poco modifica il quadro di fondo. Sui diciannove Paesi che compongono l’area, l’Italia si colloca al quarto posto dopo Grecia (47,9%), Spagna (47,7%) e Croazia (43,1%).

Nel frattempo rischiano di radicarsi alcune situazioni critiche che li riguardano: i giovani che non studiano e non lavorano (Neet) hanno ormai stabilmente superato la soglia dei due milioni (2,2), circa il 26% degli under 30 (quarto dato più elevato tra i Paesi Ocse). All’inizio della crisi, nel 2008, erano 7 punti percentuali in meno (19,1%).

Anche gli indicatori di qualità del lavoro hanno andamenti migliori al crescere dell’età, aggravando la situazione di svantaggio dei giovani. La quota di dipendenti con bassa paga tra gli under 35 è più che doppia rispetto alle classi di età adulte, mentre più di un terzo di essi ha un livello di istruzione superiore a quello più richiesto per il lavoro svolto (21,4% nella classe centrale e 11,6% gli over 55).

L’Italia è sotto la media Ocse per la promozione e l’utilizzo delle competenze dei giovani sul posto di lavoro. Inoltre il fenomeno – ormai ragguardevole – della cosiddetta “fuga dei cervelli” rappresenta ancora una questione aperta: i tanti giovani altamente formati in Italia – con investimento di risorse e competenze – che decidono di andare all’estero per trovare lavoro spesso a condizioni molto vantaggiose e che altrettanto spesso non rientrano in Italia è una vittoria o una sconfitta per il Paese?

Tutto ciò in un quadro in cui il welfare non è più di sostegno, né baluardo sicuro per gli individui rispetto alle minacce al loro benessere: soprattutto non lo è per i giovani, per i quali la sola vera politica pubblica varata in questi decenni è rappresentata dall’istituzione del Servizio civile, misura sempre meno finanziata a livello nazionale.

Nel 2015 la dotazione ordinaria era di 115 milioni e 113 milioni nel 2016 e 2017, dopo che si era prospettato un taglio che riduceva a 65 milioni i fondi per il 2015. Ciò vuol dire che per quest’anno sono stati avviati al servizio 30.000 giovani, ma nel 2016 saranno appena 20.000, allontanando così il traguardo dei 100.000 giovani nel 2017 e impedendo alle organizzazioni accreditate di fare una programmazione pluriennale utile a garantire ai giovani e alle istituzioni un Servizio civile di qualità.

Di fronte a questa situazione si dovrebbe concludere che ben poca è l’attenzione riservata alle nuove generazioni e alla loro necessità di inserirsi nel mondo del lavoro, rinunciando in tal modo alla loro capacità di essere fattore di modernizzazione e di sostenere comportamenti e atteggiamenti inediti che preparano il terreno all’affermazione del nuovo, integrandolo con l’esistente.

I giovani sono un capitale, una dote per la società, capace di fornire nuovi stimoli all’innovazione e allo sviluppo del Paese, e il mondo del lavoro - contesto antropologico e sociale tra i più significativi - consente loro il passaggio alla vita adulta e la costruzione di un progetto di vita personale e collettivo. Senza tale possibilità può solo crescere il malessere sociale delle nuove generazioni.

Quello che si può verificare, dunque, è solo la misura della distanza fra le affermazioni espresse da papa Francesco e la realtà dei giovani oggi in Italia.

Non è tempo di facile ottimismo (per lo zero virgola): per migliorare la loro condizione serve la volontà politica e un impegno serio e intenso da parte di tutte le parti sociali, serve un progetto generale di sviluppo per il Paese e per le nuove generazioni, e una classe dirigente a tutti i livelli e in tutti i settori capace di realizzarlo, con il coinvolgimento collettivo.

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