Commenti. L'editoriale di "Altreconomia" 178. Tra i 34 Paesi OCSE, l'Italia è all'ultimo posto per numero di laureati tra i 25 e i 34 anni. Ma il buon funzionamento dell’università, anzi della scuola in generale, riguarda la capacità di educare persone capaci di vivere la propria vita all'interno di una società, e non può essere sottoposta a un mero calcolo costi-benefici. "L’istruzione è il solo rimedio contro l’instupidimento della popolazione" scriveva a fine Settecento Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet. Il commento del direttore Pietro Raitano. (Scopri di più su:
http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=5469)
di Pietro Raitano
Superata anche da Cile e Turchia, l’Italia si piazza ultima tra i Paesi Ocse (gruppo di cui fanno parte i 34 Stati più “industrializzati” del Pianeta) per numero di laureati nella fascia tra i 25 e i 34 anni: 24% a fronte di una media del 41% (il dato emerge dall’ultima edizione del report “Education at a Glance”, pubblicato a fine novembre 2015). Le cause sono di due ordini: il primo è la scarsa spesa (sia pubblica sia privata) investita per ciascun laureato nel nostro Paese, all’incirca la metà di Germania, Francia, Svezia e persino Spagna, corrispondente allo 0,9% del Pil (anche in questo caso l’Italia è ultima nella classifica Ocse, se si esclude il caso particolare del Lussemburgo). Altre cause del calo di immatricolazioni sono poi da trovare -come ha notato il portale roars.it- nel proliferare di corsi a numero chiuso, nelle tasse universitarie tra le più alte al mondo e tuttavia in aumento, e in un sistema di diritto allo studio malfinanziato e normato. Ora, fosse solo un problema da ascrivere all’ambito economico -la laurea garantisce migliore occupazione, un maggior numero di laureati garantiscono un miglior sistema produttivo- sarebbe solo, si fa per dire, l’ennesimo.
Il fatto è che il buon funzionamento dell’università, anzi della scuola in generale, non riguarda solo la crescita del Prodotto interno lordo. Il sistema scolastico nella sua globalità deve educare persone capaci di vivere la propria vita in società democratiche. Un antidoto -ha scritto il linguista Tullio De Mauro- contro l’instupidimento indotto dalle società consumistiche, contro le esplosioni di violenza e rabbia di giovani frustrati. L’istruzione è un fatto di democrazia.
Nel 1791, nel pieno della rivoluzione francese, il matematico e filosofo Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet, scrisse cinque “memorie”, articolando un progetto di istruzione pubblica “al servizio del benessere della società”. Condorcet ribadì il legame tra diritto universale all’istruzione e il suo potenziale democratico e culturale quale fondamento libero e autonomo di cooperazione e partecipazione politica. In un tempo in cui la formazione è sottoposta a un mero calcolo costi-benefici, le parole di Condorcet suonano profetiche: “L’istruzione è il solo rimedio contro l’instupidimento della popolazione, tanto più dannoso in uno Stato in cui le leggi hanno stabilita maggiore uguaglianza. Senza di essa, la sorte della nazione dipende, allora, in parte, da uomini che non sono in grado di essere diretti dalla loro ragione, e non hanno una volontà propria. Le leggi pronunciano l’eguaglianza nei diritti; ma soltanto l’istruzione può renderla reale”.
Prima di essere uno scrittore, Primo Levi era innanzitutto un chimico, circostanza che forse contribuì a salvarlo nella drammatica esperienza -durata un anno- nel campo di concentramento di Auschwitz. Al suo “essere chimico” Levi dedicò un libro nel 1975, “Il sistema periodico”. Ciascuno dei 21 racconti che lo compongono è dedicato a un elemento della “tavola”. Nel capitolo “Zinco”, Levi racconta di quando, studente universitario, fece per la prima volta ingresso nel laboratorio di Preparazioni: “Un rituale di iniziazione, in cui ogni suddito veniva strappato bruscamente al libro e al banco, e trapiantato in mezzo ai fumi che bruciano gli occhi, agli acidi che bruciano le mani, e agli eventi pratici che non quadrano con le teorie”. A lui viene chiesta la preparazione del solfato di zinco.
“Il così tenero e delicato zinco, così arrendevole davanti agli acidi, che se ne fanno un solo boccone, si comporta invece in modo assai diverso quando è molto puro: allora resiste ostinatamente all’attacco. Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l’elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l’elogio dell’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da esser fertile. Ci vuole dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape. Il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale”.