Oggi nel mondo sono in corso 33 guerre. In ciascuna di esse la violenza è affiancata da una strategia del terrore, più o meno strutturata. Non è affatto una novità dei più recenti conflitti armati o degli atti di terrorismo nel mondo su cui sovente si sofferma la stampa: il terrore potrebbe considerarsi una condizione stessa della guerra. È su come però “noi” leggiamo questi fatti che si gioca l’adozione delle scelte politiche e sociali che hanno ripercussioni sulla nostra quotidianità.

Noi spettatori? O "Noi terroristi"?

È quest’ultimo il titolo del recente volume di Mario Giro, Sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e già responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio dal 1998 al 2011. Con l’intento di portare su una realtà più vicina la lettura di una guerra barbara e apparentemente lontana, quella contro Daesh in Medioriente, Giro avvia la sua riflessione sul terrorismo islamico, in particolare in Francia, partendo da una semplice constatazione. Tanto nell’attacco di Parigi del 25 luglio 1995 alla stazione RER di Saint Michel, quanto nell’assalto al Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015 e ancora nei diversi attentati di Parigi dello scorso 13 novembre, i terroristi sono sempre gli stessi. O meglio si tratta di giovani “perduti”, non integrati, spesso finiti in sacche di delinquenza o di emarginazione che trovano un obiettivo nella causa jihadista grazie all’avvicinamento da parte di “maestri” del terrore. Giovani musulmani, ma non solo, che trovano nel fondamentalismo una risposta ai tormenti che li affliggono. Gli argomenti per il terrore non sono ideologici ma di antagonismo e di ribellismo. Piuttosto quindi che parlare di un “terrorismo islamico” sarebbe più corretto affermare che ci si trova dinanzi a una “islamizzazione del terrore”, intesa come rivolta sociale.

La jihad è dunque la forma contemporanea di fare rivoluzione, per quanto inconcepibile possa apparire a primo acchito tale percezione. Rabbia, noia, voglia di avventura, passione risultano gli stimoli per partire e andare a combattere sul terreno e poi, forse, per portare la guerra anche in patria, dove la propria esistenza appare vuota o scialba. I cosiddetti foreign fighters (combattenti stranieri) sono una realtà che induce a parlare di un “noi terroristi”, così da indicare individui più vicini alla nostra realtà anziché immaginare il terrorista come un soggetto tanto diverso: quasi tutti i terroristi artefici di questi attentati sono cresciuti nelle nostre città, hanno studiato nelle nostre scuole, hanno lavorato insieme a noi e poi, ad un certo punto, si sono instradati verso la jihad evidenziando una enorme falla nella società, a livello identitario, culturale e religioso. Il terrorismo non ha quindi a prescindere una connotazione islamica, questo è certo. È la guerra epocale in atto nel mondo musulmano nella regione mediorientale a offrire un’occasione per mettersi alla prova e per prestarsi alla propaganda di coloro che usano l’Islam per reclutare gli aderenti a una causa totalizzante in grado di offrire risposte certe e un prodotto in grado di dare significato alla vita di giovani che tanto li anelano. La stessa propaganda “predica” una sapiente distinzione tra buono e cattivo, e induce a una spersonalizzazione e disumanizzazione dell’avversario, del nemico da annientare.

Parlare di “guerra di civiltà” tra occidente illuminato e Islam retrogrado così come di carnefici disumani appare un omaggio a tale impostazione totalitaria, tra i buoni e i cattivi, tra un noi e un loro. Così facendo è difficile, se non impossibile, costruire ponti di dialogo e creare effettiva sicurezza. Proprio perché i terroristi che minano a sollevare il terrore, allargando i fronti della guerra mediorientale in corso, non vengono da fuori ma dall’interno delle nostre società. Ecco anche l’illogicità di promuovere la guerra, di ideare forme di intervento armato su quei territori già infiammati dal conflitto prima che favorire i dialoghi di pace tra tutti i diversi attori coinvolti nella guerra. E ancora più irragionevole appare talvolta l’assenza di una ampia riflessione sull’unica risposta efficace ai terrorismi: ossia l’ideazione di misure che vadano a incidere su forme di inclusione sociale e per la dissoluzione dei ghetti, quelle “zone grigie” dove è molto più facile che attecchiscano le forme di “solidarietà negativa” della propaganda terrorista. Anche i linguaggi violenti e di guerra usati in questi ultimi mesi andrebbero modificati: ad esempio, gli “sbarchi” e le “invasioni” dei migranti, termini a cui spesso i media ci hanno abituato, hanno già adottato una terminologia militare.

A ciò si dovrebbe aggiungere il deciso supporto alle molte voci, che invece rimangono spesso inascoltate, atte a mostrare che non esiste una religione violenta di per sé, in questo caso l’additato Islam: dal movimento “Not in my name” dei musulmani che dissociano il comportamento dei sedicenti terroristi islamici dai precetti della fede, al più recente esperimento sociale in cui dei giovani reporter olandesi hanno intervistato dei passanti sulla base di alcuni versi di particolare violenza e discriminazione presi apparentemente dal Corano, e che solo in un secondo momento rivelavano che in realtà erano versetti della Bibbia, così da mettere in luce un certo pregiudizio montato nei confronti della religione islamica definita più aggressiva e in contrasto con i valori dell’Occidente. Preconcetti che si uniscono a timori di nuovi attacchi terroristici che unicamente politiche di inclusione e di un rafforzamento della cultura possono disinnescare. Occorrerebbe solo mantenere la calma, guardare ai fenomeni geopolitici nella loro complessità e intervenire con linguaggi e azioni convincenti per eliminare le zone grigie dove il terrore si annida.

Miriam Rossi

Partner della formazione

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